Sinistra e Risorgimento, amore e odio (nonostante le Brigate Garibaldi)

Dalla Rassegna stampa

Gli italiani non c'erano, secondo Cavour: bisognava farli. A centocinquanta anni dalla conquistata unità sembrerebbe che l'obiettivo non sia stato raggiunto. Forse sono solo acrobazie in politichese: la sfaccettata destra sul tema ha un sentire sfumato, ambivalente, ma anche la sinistra è incerta tra l'adesione e l'accettazione riluttante. La storia dei rapporti tra sinistra e Unità d'Italia (o, possiamo dire, Risorgimento) è lunga. Inizia con il Partito d'Azione di Mazzini e Garibaldi, e la sua presa sulla piccola e piccolissima borghesia urbana, piena di miti e di illusioni ma detentrice di una carica sociale che, all'epoca, poteva anche essere eversiva, come dimostrò il 1848. I governi unitari la riassorbirono attraverso il trasformismo di Depretis e successori, ma ormai si profilava all'orizzonte il socialismo, nato nel segno dell'internazionalismo proletario o operaista, dunque quanto meno non omogeneo all'epopea unitaria e risorgimentale. Per Gioacchino Volpe, il socialismo turatiano era comunque un "partito nazionale, rivolto a dissodare quel vasto e pressoché incolto terreno che il Risorgimento aveva appena sfiorato"; Crispi e con lui le classi e gli ambienti conservatori ne paventarono però le possibili fiammate rivoluzionarie, addirittura antiunitarie, analoghe a quelle che esplodevano in quegli anni in Sicilia. Un problema non da poco: come se - in fatto di ostilità all'unità appena conquistata non bastassero i conati di certo cattolicesimo, le trame dei principati in esilio e le diffidenze europee. L'avversione nei confronti delle forme e degli esiti del moto unitario si fecero sentire anche presso gli intellettuali delle varie sponde e scuole: si oscilla tra l'Oriani e la sua critica alle miserie di una Italia irriconoscibile rispetto ai vaticini risorgimentali e il Gobetti salveminiano, figura centrale rispetto alle nuove sinistre che venivano plasmandosi in quell'epoca ribollente. Nel cui calderone c'era anche Antonio Gramsci. Ed è a partire da quel lontano intellettuale che occorre prendere le mosse per analizzare e comprendere le scelte compiute dalle sinistre del secondo Dopoguerra sui temi dell'Unità d'Italia e del Risorgimento. Gramsci fu il seme di questo percorso ideale, ma il regista dell'operazione fu Palmiro Togliatti. In Gramsci ci sono due aspetti fondamentali: da un a parte c'è il Gramsci del "Risorgimento mancato": lo storico-politico attribuisce le responsabilità dei problemi emersi dopo l'unità al Partito d'Azione, che non osò puntare sui ceti contadini per realizzare la grande rivoluzione nazionale ma anche democratica necessaria.
 
Intorno a questa tesi si svilupperà nel secondo Dopoguerra una fortissima critica al processo unitario, che attraversò a lungo il Pci nonostante che le sue premesse teoriche venissero presto smantellate dagli studi di Rosario Romeo sull'economia industriale e capitalistica nell'Italia ottocentesca; è il gramscismo più facile, trait d'union tra Pci e cattolicesimo "progressista" in nome di un meridionalismo intriso anche di folklorismo alla Ernesto De Martino. C'è però anche un altro Gramsci, su cui farà perno Togliatti in una operazione intellettuale di vastissima portata, che influenzerà a lungo, e apertamente, l'intera cultura italiana, a partire da quella letteraria. Grazie a tale operazione Togliatti riuscirà a dare una vigorosa legittimazione del suo partito, inserendolo nel flusso della storia unitaria italiana. Togliatti scagliò i "Quaderni dal carcere" sul palcoscenico di una cultura, di un ceto intellettuale incerto, oscillante tra una sorta di "cupio dissolvi" - nel quale annichilire la storia e la coscienza nazionale offesa dalla guerra fascista - e una volontà di mitizzazione delle proprie radici, in buona parte bottaiane. Togliatti aprì a questi scontenti e frustrati un percorso fascinoso, che gli veniva indicato, appunto, da Gramsci. Come ha ricordato Gennaro Sasso, Gramsci teorizzò che gli italiani dovessero "fare i conti con la filosofia del Croce (...) che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca", quell'hegelismo da cui discenderebbe dialetticamente Marx. Togliatti riprese il discorso, e saldò assieme De Sanctis, Croce e Gramsci lungo una linea di nazionalismo democratico e persino liberale di radici risorgimentali. La chiave risorgimentale era già presente, del resto, nella scelta del Pci di chiamare "Brigate Garibaldi" le formazioni partigiane che a quel partito facevano capo. Ma solo afferrando il nodo culturale costituito dalla interpretazione gramsciana si può comprendere il successivo svolgimento delle vicende politiche italiane, l'emarginazione culturale prima ancora che politica dei partiti più schiettamente risorgimentali, l'egemonia del progressismo e della sua interpretazione storica della nascita di una nazione. Siamo alle fonti della famosa "doppiezza" togliattiana, la sua indiscussa capacità di investire il partito di una doppia veste, rivoluzionaria e lealista.

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