La sinistra che non ha mai amato il raìs

«Alcuni di noi facendo politica hanno avuto rapporti con quei regimi». Più che un'ammissione, quella di Massimo D'Alema è una constatazione inevitabile: fu lui il primo capo di governo europeo a recarsi a Tripoli dopo la fine dell'embargo e fu lui, da ministro degli esteri nell'esecutivo retto da Romano Prodi, a incardinare il lavoro che portò al trattato di amicizia tra Italia e Libia firmato poi da Silvio Berlusconi. Un rapporto politico mai rinnegato, nemmeno in questi momenti complicati. Ma un rapporto che non può bastare da solo a rappresentare la posizione del centrosinistra italiano nei confronti di Gheddafi.
Il Partito democratico è stato più che mai chiaro rispetto alla rivolta e alla sanguinosa repressione che stanno sconvolgendo la Libia. Il sit-in che si è svolto ieri a Roma in piazza del Pantheon, da questo punto di vista, non lascia spazio alle critiche di ambiguità e strumentalizzazioni giunte dalla maggioranza. I Democratici chiedono «una più chiara posizione rispetto alle esigenze di cambiamento che vengono da un così profondo movimento di popolo» al governo Berlusconi, «rimasto a lungo inerte, silente - attacca Bersani - nel tentativo prolungato di non disturbare un leader straniero considerato un amico personale».
Bisogna tornare indietro di due anni per dimostrare come le posizioni interne al Pd già all'epoca dell'approvazione del trattato di amicizia italo-libico erano tutt'altro che omogenee. È vero che a votare no a Montecitorio furono, oltre a Udc e Idv, solo due deputati dem (Furio Colombo e Andrea Sarubbi) e la pattuglia radicale, con Matteo Mecacci a guidare l'ostruzionismo prima in commissione e poi in aula, con circa seimila emendamenti poi ridotti a un centinaio. Ma le perplessità sull'opportunità di quel trattato erano molto più diffuse, come dimostrano le 22 astensioni (tra questi Paolo Gentiloni, Emanuele Fiano, la bindiana Margherita Miotto e alcuni rutelliani, poi transitati nell'Api o nell'Udc) e la non partecipazione al voto di altri importanti deputati dem, con in testa l'allora segretario Walter Veltroni e altri parlamentari a lui vicini, da Giovanna Melandri a Walter Verini. Ma assente era anche l'attuale segretario Bersani. Curiosità: non era in aula nemmeno D'Alema, che quattro giorni dopo sarebbe stato insignito a Tripoli dell'onorificienza dell'ordine del Fatah.
«In commissione - ricorda Mecacci - il Pd votò in un primo momento a favore dei miei emendamenti. Poi però D'Alema spinse per far cambiare posizione al gruppo». Veltroni avrebbe provato a capire se si poteva giungere a una posizione comune del Pd, magari astenendosi. Ma, spiega Sarubbi, che allora si mosse in difformità rispetto ai colleghi, «quel trattato era visto come un eredità del governo precedente e per questo in molti si sentivano in dovere di approvarlo». Ieri, però dai microfoni del Tg3 è stato lo stesso Romano Prodi a prenderne le distanze: «Io il trattato non l'ho voluto sottoscrivere perché non lo ritenevo conveniente. I rapporti con la Libia sono utili ma la dignità va sempre salvata».
Il radicale Mecacci guidò l'azione dell'opposizione anche quando la recrudescenza dei flussi migratori provenienti dalla Libia riaccese la discussione a Montecitorio sull'opportunità dell'accordo. Fu il primo atto "ostile" del neonato gruppo di Fli, che determinò la sconfitta della maggioranza su un emendamento a firma di Mecacci. Il Pd, in quel caso, si schierò compatto nel chiedere la riforma del trattato, a garanzia dei diritti umani. Ma erano già bastate le prime folkloristiche visite del Colonnello a Roma per eliminare gli ultimi dubbi dei dem.
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