La sindrome algerina che minaccia il Cairo

Dalla Rassegna stampa

Si temeva che l’Alta Corte egiziana potesse mettere fuori gioco Ahmed Shafiq, in corsa per il prossimo ballottaggio presidenziale, in quanto ultimo capo del governo dell’èra Mubarak. E invece il verdetto di ieri ha squalificato l’intera Camera bassa del Parlamento appena eletto, di fatto mettendo in crisi il tormentato processo di transizione egiziano.

Transizione verso che cosa? La domanda risuona oggi più forte e sinistra che mai, considerando che non era per nulla scontato che la rivoluzione egiziana imboccasse la via delle urne per tentare di approdare all’istituzionalizzazione del cambiamento. Il paradosso è che, mentre la Corte sancisce il diritto del candidato delle Forze Armate a concorrere per la presidenza in libere elezioni, allo stesso tempo fa venir meno la fiducia degli egiziani sul principio stesso della democrazia rappresentativa e sull’efficacia del processo elettorale come metodo per la selezione e l’avvicendamento delle leadership politiche.

Può darsi infatti che durante la sfinente procedura con cui sono stati scelti i parlamentari siano state compiute delle irregolarità; ma parlare di «violazioni costituzionali» in un Paese che una nuova Costituzione se la deve ancora dare appare francamente incomprensibile. O fin troppo comprensibile. Questo pronunciamento segue infatti di pochissime ore quello del Consiglio Supremo delle Forze Armate che affida i pieni poteri ai militari fino a quando la nuova Costituzione non sarà promulgata e dopo che il ministro della Giustizia ha esteso la competenza della polizia e dei tribunali militari a una serie di reati che vanno ben oltre quelli riservati al loro dominio.

La Corte Suprema egiziana ha una tradizione di pronunciamenti volti a delegittimare Camere troppo ingombranti per i detentori del potere. Già nel 1987 e nel 1990 essa offrì a Mubarak lo strumento legale per sciogliere un Parlamento non completamente docile. Si dirà che oggi Mubarak non c’è più. Giusto. Ma i militari restano il vero potere dell’Egitto ed evidentemente hanno deciso che la stagione dei compromessi e della ricerca di un accordo con i nuovi soggetti politici in via di affermazione (Fratellanza Musulmana e Salafiti) si è conclusa. E i magistrati gli hanno fornito lo strumento. Come accadeva anche nella Turchia kemalista, del resto, gli uni e gli altri sono i guardiani dell’establishment. Diversamente da quanto accaduto in Turchia con i ripetuti successi dell’Akp di Erdogan (alla cui esperienza alcuni settori della Fratellanza egiziana guardano con interesse), giudici e militari sembra abbiano deciso di rompere gli indugi e di andare alla prova di forza. Hanno scelto la «soluzione algerina» e non quella turca.

Come si ricorderà, nel 1992, il regime algerino decise di sospendere il secondo turno elettorale per impedire la vittoria annunciata degli islamisti del Fronte Islamico di Salvezza. Ne seguì una lunga e sanguinosissima guerra civile che costò al Paese decine di migliaia di morti. Forse anche spaventati da quanto sta avvenendo in questi giorni in Tunisia, dove i Salafiti hanno costretto le autorità a proclamare il coprifuoco per riprendere il controllo delle piazze cittadine, i militari han preso la loro decisione. La formula dubitativa è ovviamente necessaria, in attesa di vedere che cosa succederà oggi in piazza Tahrir, ad Alessandria (roccaforte salafita) e in tutto l’Egitto. Ma la prospettiva che gli egiziani se ne stiano con le braccia conserte mentre vengono scippati del risultato delle loro prime elezioni libere è irrealistica. Quello che è sicuro è che la delegittimazione del processo elettorale attuata in Egitto da giudici e militari legittima di fatto i possibili tentativi di sostituire bulletts to ballotts (le pallottole alle schede) che chiunque altro vorrà d’ora in poi porre in essere: a cominciare dai salafiti e dai loro emuli. Inutile aggiungere che, per il valore simbolico ricoperto dalla rivoluzione egiziana, si tratta di un pessimo segnale per tutto il mondo arabo.

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