Silvio e Gianfranco gli alleati sempre rivali

Dalla Rassegna stampa

De Mita osservò Berlusconi e Fini in Transatlantico, li vide sfiorarsi senza nemmeno scambiarsi uno sguardo, rivolgersi un saluto: «Quei due sono come fratelli siamesi, che pur volendo staccarsi sono costretti a stare insieme». Infatti sono sedici anni che Berlusconi e Fini vivono una storia tormentata, da quando si strinsero la mano per una foto che sarebbe rimasta a lungo segreta, e che precedette l’endorsement del Cavaliere per il segretario dell’Msi, candidato a sindaco nella Capitale. Il 23 novembre del 1993 a Casalecchio di Reno - dicendo che «se fossi cittadino di Roma voterei per Fini» - Berlusconi affisse le pubblicazioni delle nozze con il capo della destra, un anno prima di quell’incredibile operazione di bigamia politica con cui conquistò palazzo Chigi insieme anche a Umberto Bossi.
L’unione tra «Silvio» e «Gianfranco» dura da allora, unica coppia che nel centrodestra abbia resistito ai rovesci della fortuna. Ma il loro legame non è frutto di un’attrazione, ed è inutile quindi cercare un prima e un dopo. Le liti iniziarono già nel ’94, quando il governo appena nato entrò subito in agonia. Si detestavano sapendo di non potere fare a meno l’uno dell’altro, troppo diversi per storia e per carattere. La sera del 31 dicembre, vigilia del «ribaltone», Berlusconi chiamò Fini per cercar conforto. «Silvio» era al caldo, a casa sua a Milano. «Gianfranco» al gelo in una piazzetta di Copenhagen. «Silvio» iniziò a lamentarsi, seduto in poltrona. «Gianfranco» prese a fumare, raggomitolato su una panchina. Il primo non smetteva di inveire contro Scalfaro. Il secondo non riusciva a farlo smettere e aveva anche finito le sigarette. Finché la batteria del cellulare non salvò Fini: «Per fortuna. È quasi l’ora del cenone».

La crisi di governo innescò subito la sfida per la leadership. Il capo della destra si era già stufato dei modi dell’alleato, e un giorno - nella storica sede di via della Scrofa - disse con una battuta ad alcuni colleghi di partito: «Ci leviamo di torno questo cavaliere e ci teniamo il nostro». A Fiuggi, nel gennaio del ’95, dove si spense la Fiamma e nacque An, toccò alla Poli Bortone far scoccare sul palco del congresso la scintilla: «La guida del Polo da parte di Fini è nei fatti». A Berlusconi fu come toccargli Mediaset. «Quei fascisti li ho sdoganati io». E da lì uno scambio di buone maniere, culminate nella frase di «Gianfranco»: «Silvio è solo un piazzista».

Le pratiche di divorzio sembravano pronte l’indomani della vittoria ulivista alle elezioni del ’96, dopo che Fini si era opposto alla nascita del governo Maccanico, quello dell’«inciucio». In fondo era stato il Cavaliere a perdere con Prodi, mentre An aveva ottenuto il 15,7% nelle urne, suo massimo storico. Fu così che il leader della destra pensò di avviare un’Opa su Forza Italia, convocò il partito e annunciò «una battaglia per conquistare il voto degli elettori di centro». Berlusconi preparò la contromossa. Iniziò a incontrare segretamente D’Alema, considerato «il vero capo del centrosinistra», mentre pubblicamente fece finta di meditare un passo indietro. «Cominciate a riflettere sulla mia successione», esordì con voce rotta al comitato del Pds così da presentare ai «compagni» l’ex acerrimo nemico. Fini gridò al tradimento, disse che la commissione per le riforme era «aria fritta»: «E comunque presidenzialismo e federalismo (proprio così, federalismo) sono per An punti irrinunciabili. Non si può dare il via libera solo perché c’è un’assonanza sulla giustizia». Proprio così, giustizia. E a Berlusconi fu come rimuovere una carie senza anestesia: «Il retaggio di una vecchia politica, figlia della cultura del sospetto, stenta a morire. Fini sta percorrendo vecchie vie».
La liaison tra «Silvio» e «Massimo» sembrava non incontrare ostacoli, finché gli ostacoli non la mandarono in frantumi. La sera della famosa cena a casa Letta, dopo che si era giunti a un compromesso su semi-presidenzialismo e legge elettorale, D’Alema e Marini stavano per congedarsi. Quando Berlusconi richiamò la loro attenzione: «Scusatemi, ma c’è da risolvere il problema della giustizia. Non si può andare avanti così, avete letto cosa facevano alla procura di Milano». Fini prese la strada del bagno, mentre Marini diceva a D’Alema: «Guarda che ha ragione Berlusconi». «Lo so», fu la risposta: «Ma il mio partito è diviso. Al massimo potremo arrivare alla libertà di voto».

Non ci si arrivò perché la Bicamerale cadde, non prima che tra il Cavaliere e il leader di An si fossero invertite le parti, e che «Gianfranco» si schierasse con D’Alema, ormai mollato da «Silvio». Dì li a poco il segretario del Pds avrebbe scambiato la presidenza della commissione parlamentare con la presidenza del Consiglio. Anche in quella fase la coppia del centrodestra sembrò sul punto di saltare. Casini, che allora stava dentro il Polo, spiegò perché il divorzio non ci sarebbe stato: «Fini senza Berlusconi dove andrebbe? Crede davvero di raccoglierne l’eredità? Farebbe l’opposizione a sua maestà D’Alema per i prossimi vent’anni. E Berlusconi senza Fini? Verrebbe inghiottito dalle sabbie mobili del centro».

In vista delle Europee del ’99 tra i due si apparecchiò una nuova sfida. Il capo di An, sempre con la voglia del sorpasso, s’inventò l’Elefantino, imbarcando nell’impresa Mario Segni e una pattuglia di radicali. Berlusconi, che aveva appena fatto bingo con il Partito popolare europeo, riunì il partito e commentò: «Questa me la voglio proprio godere». L’Elefantino prese una tale sveglia che «Gianfranco» venne processato dai colonnelli. «Non possiamo allearci con i nemici e litigare con gli amici», urlò Gasparri. «Ci sono più berlusconiani in An che dentro Forza Italia», disse Fini. Che riprovò comunque a battagliare per la leadership del Polo, invocando le primarie. «Le primarie le hanno già fatte gli elettori alle Europee», si sentì rispondere.

Però, se è vero che tra i due non c’è mai stato amore, se è vero che litigarono anche sui referendum elettorali, è altrettanto vero che in quella stagione furono capaci di grandi successi e grandi intese. Strapparono per la prima volta Bologna alla sinistra, e soprattutto trovarono l’accordo per votare Ciampi al Quirinale. Operazione avviata da Fini, che così la raccontò: «Ne parlammo io e Veltroni, più un’altra persona di cui non farò mai il nome». Il Cavaliere, che in una prima fase era propenso ad appoggiare un popolare, fu lesto a metterci il cappello sopra. E il giorno dell’elezione, durante un brindisi, lasciò cadere una battuta: «Peccato che Ciampi non l’abbia votato pure Bossi». «Bossi? che c’entra Bossi?», s’incuriosì Fini. Perché era dal ’95 che il leader di An non prendeva un caffè insieme al Senatur, quello che aveva rotto con il Polo, che nelle piazze gridava al «Berluskaz» e inveiva contro «la porcilaia fascista». «Allora, Silvio: che c’entra Bossi?». Silvio stava per mantenere la promessa a cui nessuno nel ’96 aveva creduto: «Ragazzi ho un piano. Vi porto tutti con me a palazzo Chigi». Altro che mollare, Berlusconi stava per fare piatto alle Regionali.
 

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