Silvio in difficoltà. "Si può difenderlo?"

Dalla Rassegna stampa

Al diavolo la tranquilla quiete di Arcore. Il lunedì brianzolo, giornata in cui Silvio Brlusconi spiccia questioni personali, familiari e aziendali, ieri è stato un inferno. Telefoni roventi, con il presidente del Consiglio impegnato nella risoluzione della grana Scajola.
Raccontano che, sul caso del ministro dello Sviluppo economico, si sia mosso addirittura il Capo dello Stato. Gira voce di una telefonata, partita dal Quirinale destinazione villa San Martino, in cui Giorgio Napolitano abbia esternato al Cavaliere tutte le sue preoccupazioni per le indiscrezioni giornalistiche che stanno investendo il ministro berlusconiano. Non solo: il Colle avrebbe pure sollecitato un intervento del capo del governo per risolvere il problema.
Dimissioni? Guai, non è nei poteri costituzionali della prima carica dello Stato. Però il disagio quirinalizio ci sta tutto. E rimane anche dopo la telefonata ricevuta - l’altra indiscrezione che gira - da parte dello stesso Scajola, che avrebbe provato a spiegare le sue ragioni e la sua estraneità ai fatti anche al Presidente della Repubblica.

LINEE ROVENTI
Altra interurbana. Anzi una chiamata internazionale: quella che il ministro dello Sviluppo fa da Tunisi al presidente del Consiglio. Forse anche più di una. A Roma circola voce di sue dimissioni imminenti. Berlusconi invita il suo uomo ad andare avanti e a non lasciarsi condizionare dall’offensiva giudiziaria. Allora il ministro decide di mettere a tacere le indiscrezioni con un comunicato («Sono vittima di un processo mediatico, mi difenderò»), leggendone il contenuto al premier prima di mandarlo. Scajola annuncia al capo del governo pure il suo rientro anticipato dalla missione in Tunisia: «Voglio essere a Roma per seguire personalmente il caso. E difendermi».
Berlusconi? Tira su il morale al suo plenipotenziario ligure, lo rassicura: solidarietà, e sostegno ci sono e ci saranno sempre. Però, poi, in altri colloqui, Silvio ammette di avere le mani legate: «Non so come difendere Claudio». E in effetti la tesi della «indifendibilità» di Scajola circola anche tra i suoi colleghi ministri. Quando in ambienti governativi trapela la notizia del comunicato imminente del titolare dello Sviluppo economico, molti danno per scontato che si tratti dell’addio al dicastero.
E invece: va avanti, vuole essere l’uomo che ha riportato il nucleare in Italia, Scajola. «Questa Claudio poteva pure risparmiarsela...», commenta un ministro azzurro.

ADDIO ALLE CAMERE
Già, ma come uscirne? Date per certe le dimissioni, come si fa dalle parti di Palazzo Chigi, rimane incerto il quando. Potrebbe rassegnarle in Parlamento, il 14 maggio, dopo essere stato ascoltato in Procura. Ma si può tenere sulla corda l’intero governo, con questa storia, per altri dieci giorni?
Bel problema. Che ne porta con sé un altro pure più grosso: chi mettere al posto di Scajola. Il Cavaliere punta a, tenersi stretta la sua squadra. Uno, perché gli dà soddisfazioni; due, perché mettere mano al governo comporta grane, gelosie, malumori. Allora allo Sviluppo economico andrà un suo fedelissimo e senza spostamento di caselle che creino pericolosi effetti domino.
Ora, come se non bastasse il caso Scajola, ci si mette pure Gianfranco Fini a rendere più complicata la vita (politica) di Berlusconi. Ieri una, nuova uscita del presidente della Camera. E stavolta non si tratta soltanto del solito controcanto al governo, c’è qualcosa di nuovo. Qualcosa di più: il numero uno di Montecitorio invita Generazione Italia a strutturarsi sul territorio, a fare proseliti. Insomma: adesso Fini si mette pure a fare il capo corrente. È una cosa, questa, che manda su tutte le furie Berlusconi. Il Cavaliere ha criticato lo strumento di proselitismo usato da Gianfranco («Registra i videomessaggi, mi copia»), ma soprattutto il contenuto dell’esternazione dell’ex socio: «Persegue solo le sue ambizioni personali». E, peggio, «fa politica come non dovrebbe uno con il suo ruolo istituzionale». Tanto che il premier avrebbe addirittura ipotizzato di rivolgersi a Napolitano per fermare la voga oratoria della terza carica dello Stato.

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