Silvio e gli amici del '94. Urbani torna in scena

Dalla Rassegna stampa

 

Squilla, squilla il telefono di Giuliano Urbani, politologo, colomba di quella che fu Forza Italia, pronubo sin dal 1993 della berlusconiana scesa in campo del 1994 e, da inventore dei neorinascimentali «Comitati del Buongoverno», tessera numero uno, o forse due, o forse tre del neonato partito, e in questo in perenne competizione col correligionario liberale Antonio Martino.
Squilla, squilla, da quando nella notte di martedì Urbani è stato visto al desco di Villa San Martino a parlare, con Berlusconi e Bossi innanzitutto, di riforme istituzionali. Giuliano Urbani è tornato, e mancava dal 2005, da quando lui due volte ministro oppose il gran rifiuto alla terza, e lo fece difendendo Berlusconi nella crisi provocata da Casini e Follini. Da quel che sembrava, Urbani vittima di un rimpasto, diventò Urbani il Pietro Micca di Berlusconi.
Squilla il cellulare e lui, uomo mite, uno che fu il solo non-professore tra i professori alla corte del Cavaliere, a tutti risponde e dice che sì, «di semipresidenzialismo alla francese si tratta» e che no, «non è vero che nel ‘97 Berlusconi rovesciò il tavolo della Bicamerale perché non gli andava a genio quella forma di governo». Anche se all’epoca il Cavaliere disse pubblicamente che gli sembravano molli i poteri dell’Eliseo, e segnatamente in materia di politica estera, «il fatto fu che D’Alema, all’inizio della Bicamerale, ci aveva garantito che nella riforma della Costituzione ci sarebbe stata la separazione delle carriere dei magistrati tra magistratura inquirente e giudicante. Poi, a un certo punto, com’è buffa la coincidenza, D’Alema ricevette una lettera di 49 senatori, primi firmatari Giangiacomo Migone e Tana De Zulueta. Si proprio 49, quanti sono oggi quelli che a Bersani chiedono "più anima", che chiedevano a D’Alema di opporsi, niente più separazione delle carriere. E allora...». C’è da credergli, perché Urbani era l’addetto - per così dire - al flirt con D’Alema, come lo chiamarono i giornali dell’epoca, quando non era lo stesso Berlusconi ad occuparsene.
Non è mai uscito di scena Urbani, e non sta rientrando adesso, assicura chi conosce le segrete cose di corte. Telefonate, incontri, chiacchierate, «del resto, da amico di Berlusconi di certo non mi sono dimesso mai». Nè è strano questo pubblico riapparire di un’ombra del passato senza le ombre del passato, senza la violenza anche verbale che condisce la politica, e che un giorno spinse Francesco Cossiga a dire di lui «mens nana in corpore nano». E lo stesso Urbani del resto garantisce a tutti quelli che gli telefonano che di riforme s’è occupato sempre, «anche il tentativo Maccanico lo era, poi la Bicamerale, e prima le riunioni con Bassanini e Fisichella...». Come dire: altro che Lorenzago, pur nel massimo rispetto della Lega, «abbiamo operato con loro in passato alcune convergenze interessanti».
Difficile dire se oggi come allora Urbani sia colomba o falco. Chi ha provato ad indagare di quale presidenzialismo si tratti, e dunque di quale futura legge elettorale, si è sentito candidamente rispondere «naturalmente con quella che c’è». Ma quale populismo, ma quali rischi sudamericani, ma quale parlamentarismo inane, «il problema dell’Italia non è la debolezza del Parlamento è la debolezza complessiva del sistema, questa legge elettorale ci ha dato una maggioranza forte e dunque va bene, benissimo». E questo, non lo disse nemmeno Roberto Calderoli, che una volta sbottò, «la legge elettorale l’ho scritta io, ma è una porcata! »

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