La sfiducia e l'effetto boomerang

Claudio Scajola vede appesantirsi giorno dopo giorno la sua posizione. Anche ieri le carte uscite dagli uffici giudiziari di Perugia, con i verbali degli interrogatori delle venditrici del famoso appartamento con vista sul Colosseo, hanno confermato la fondatezza delle accuse che lo riguardano e la debolezza della linea di difesa adottata finora, basata sui «non so» e non «mi risulta».
Adesso il ministro ha annunciato che risponderà in Parlamento, dopo l’appuntamento preso con i magistrati per il 14 maggio. Ma non andrà molto lontano se pensa di presentarsi alla Camera ripetendo quel che ha già detto, e definendo «attacco mediatico» le testimonianze raccolte fin qui dagli inquirenti, che gli contestano di aver ricevuto 900.000 euro in assegni circolari per acquistare la casa che ufficialmente dice di aver pagato 610.000 euro, e che invece sarebbe costata un milione e mezzo.
Denaro consegnatogli dall’architetto Angelo Zampolinì, membro della «cricca» che con il costruttore Diego Anemone e il provveditore alle Opere pubbliche Angelo Balducci è al centro dell’inchiesta sugli appalti della Protezione civile.
Nel linguaggio colorito dei corridoi parlamentari, quando un ministro si trova in guai del genere, si dice che «è cotto». C’è però - c’è sempre stato -, un modo sicuro per rafforzare o consolidare la posizione di un membro del governo coinvolto in uno scandalo: presentare contro di lui una mozione di sfiducia, meglio se di sfiducia personale, in modo da aggiungere, alle normali difficoltà di approvazione di questo genere di documenti, un dotto dibattito politico giurisdizionale sull’ammissibilità degli stessi, e provocare così una stretta di solidarietà della maggioranza in favore della vittima.
La discussione sui principi, sul metodo e sull’interpretazione della Costituzione, a quel punto, diventa infatti preminente rispetto al merito dei fatti. In altre parole, aspettando di capire se veramente Scajola s’è comperato il famoso appartamento al Colosseo facendosene regalare i due terzi, o facendoselo pagare con assegni ricevuti in cambio di chissà che, il dibattito si sposterà sulla possibilità, per l’opposizione, di avanzare una richiesta di licenziamento del ministro prima che la magistratura abbia chiarito se è, sta per essere, o non è, inquisito. Ci sarà modo, a quel punto, per un qualsiasi esponente dei centrodestra, tra i tanti che già adesso fanno quadrato, di proporre un rinvio, in attesa di approfondimento, della discussione. E per la Camera di approvarlo, senza per questo pagare il prezzo politico della protezione corporativa di un ministro che, agli occhi della gente, al minimo ha goduto di un privilegio inspiegabile, e per giunta in fatto di casa, cioè di un genere di prima necessità.
Antonio Di Pietro, che ieri ha presentato a nome del suo partito una mozione di sfiducia contro Scajola, tutto questo lo sa benissimo. Lo sanno anche, e si vede dal tono imbarazzato delle loro dichiarazioni, i suoi alleati del Pd, molti dei quali mal celano le perplessità sul «soccorso rosso» portato al ministro in difficoltà. A loro, anche stavolta, tocca la scelta: contendere a Di Pietro il monopolio degli arrabbiati che non si accontenterebbero neppure delle dimissioni di Scajola, e vorrebbero piuttosto vederlo appeso a testa in giù, o muoversi con più accortezza, e magari lasciarlo furbamente rosolare, per portarlo a poco a poco al giusto punto di «cottura».
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