La sfida politica di Bersani comincia domani. Con tutte le sue insidie

Il vero cammino politico di Pierluigi Bersani comincia adesso. Finora il nuovo segretario del Partito democratico ha provato a riordinare gli equilibri interni, sistemando i muri pericolanti del centrosinistra. Operazione riuscita a metà. Domani, di fronte all'assemblea che ratificherà la sua elezione, dovrà fare molto di più. Dovrà cominciare a parlare di politica e di strategie. Ed essere meno generico di quanto è stato fino a oggi. A Berlusconi che ha buttato sul tavolo, una volta ancora, l'ipotesi di elezione diretta del premier, vale a dire una sostanziale rivoluzione degli assetti istituzionali, Bersani ha opposto che «noi abbiamo altre idee». È bene che precisi quali sono.
Non c'è dubbio che il cosiddetto «populismo» o «leaderismo» berlusconiano non può piacere all'opposizione. Non piace a Bersani come a Casini. In un certo senso incoraggia e rafforza la rete di contatti che il neosegretario tesse con altre forze interessate a capire dove andrà il Pd. A cominciare dai radicali di Pannella ed Emma Bonino, ai quali il laico Bersani ha dedicato particolare attenzione.
Ma dire di «no» a Berlusconi non può bastare. La prima uscita del capo dell'opposizione non può essere all'insegna del puro conservatorismo, secondo il vecchio slogan «la Costituzione non si tocca». Se il premier gioca la carta del plebiscito personale, sia pure solo sul piano retorico, il Pd dovrà opporre la sua visione istituzionale alternativa, ma non immobilista.
Questo vale per la questione dell'elezione diretta, che è insidiosa ma non attuale, e vale a maggior ragione per il tema della riforma della giustizia. Il Pd ha nel suo patrimonio le proposte istituzionali di Luciano Violante, su cui in passato erano state raggiunte alcune intese: è plausibile che Bersani voglia ricominciare di qui. Consapevole, peraltro, che la strategia del presidente del Consiglio è soprattutto elettorale. Più che ad accordi con l'opposizione, a cui non crede, Berlusconi si prepara a prendere la rincorsa per presentarsi davanti agli italiani, nelle regionali di primavera, come l'unico innovatore e riformatore presente sulla scena politica.
Del resto, non ha annunciato pochi giorni fa che «è l'ora dei falchi»? I falchi non cercano accordi. Qualsiasi compromesso con l'opposizione equivarrebbe, nella sua idea, a un appannamento d'immagine. Viceversa, un successo elettorale rimetterebbe al loro posto gli alleati che lo incalzano, da Fini a Bossi, e dai quali una volta di più Berlusconi si sente infastidito e soffocato.
Si capisce perciò che la partita tra governo e opposizione è in questo momento subordinata a quella che si gioca all'interno del centrodestra. Almeno fin quando non sarà chiara la mappa delle candidature, prime fra tutte la Lombardia, il Veneto e il Piemonte. Senza contare che il tema del «salvacondotto giudiziario» per il premier (leggi prescrizioni accelerate) è ancora irrisolto.
Stando così le cose, il quadro è destinato a restare instabile. Il che non è un danno per Bersani. Gli dà il tempo di organizzare una linea. E di cancellare, se ne sarà capace, quell'impressione di grigiore che gli avversari gli hanno subito appiccicato addosso. All'assemblea il neosegretario si presenta dopo l'addio di Francesco Rutelli, cui si è aggiunto ieri quello di Calearo. Un atto di sfiducia verso la capacità del partito di modernizzarsi e di modernizzare l'Italia. E qui è il punto cruciale su cui Bersani deve dare risposte convincenti.
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