La separazione del delfino

Dalla Rassegna stampa

 

E’ da subito dopo la vittoria elettorale della destra nella primavera del 2008 che Gianfranco Fini ha cominciato a differenziarsi da Silvio Berlusconi, a costruire un’immagine di sé diversa da quella del presidente del Consiglio. E’ una strategia che oggi sembra compiere un passo ulteriore con la minaccia del presidente della Camera di dare vita addirittura ad autonomi gruppi parlamentari. Una strategia, peraltro, che ha avuto successo, dal momento che su temi quali i valori e le regole della Costituzione, la politica verso gli immigrati, il riconoscimento dei nuovi «diritti» soggettivi di carattere bioetico o sessuale, Fini è riuscito senz’altro a costruirsi un’immagine nettamente diversa da quella del leader della destra. Soprattutto egli ha mirato a marcare nei suoi confronti una forte differenza stilistica. Aiutato dalla propria carica istituzionale di presidente della Camera, si è mostrato attento, pronto al dialogo, di vedute aperte su qualunque argomento, sempre rispettoso delle forme e delle regole. Da ultimo ha trovato anche modo di darsi un’adeguata veste culturale istituendo un’apposita Fondazione, chiamando intorno a sé un drappello d’intellettuali, nonché, come si conviene, scrivendo perfino un libro dedicato (addirittura) al «futuro della libertà».
Insomma un Fini distante anni luce dall’antico delfino di Almirante e pure dal capo della defunta Alleanza nazionale. In vista di che cosa? ci si è chiesti fin dall’inizio. E si è sempre risposto: in vista della successione a Berlusconi. Ma a parte che quanto accaduto ieri sembra gettare più di un’ombra su questa ipotesi, resta il problema circa la natura della strategia di differenziazione adottata in tutto questo tempo da Fini.
Se era davvero quella di diventare l’erede della leadership del Pdl, non sembra proprio che sia stata la strategia più adatta. Principalmente per un motivo: e cioè che si è trattato di una strategia rivolta in modo troppo esclusivo e - sia detto senza cattiveria - in modo talvolta troppo ingenuo, soltanto a mutare di 180 gradi la posizione ideologica del presidente della Camera, senza tuttavia dare a tale mutamento alcuna sostanza politico-programmatica che fosse in qualche misura congrua all’area politica di appartenenza dell’autore.
Senza la capacità di colloquiare con tale area, di mantenere un rapporto reale con il suo elettorato. Insomma: va bene diventare un liberal colto, internazionalista, devoto al patriottismo costituzionale; va bene dirsi sempre per il dialogo e il confronto; va bene auspicare una destra di tal fatta; ma quali soluzioni questa avrebbe dovuto poi adottare in tema di riforma fiscale e del Welfare, di riforme istituzionali, di federalismo, di organizzazione dell’università e della ricerca, di liberalizzazioni, di riforma
della giustizia, eccetera eccetera? Fini, sia pure con le ovvie cautele cui lo obbliga la sua carica, non lo ha mai detto. Non ha mai detto qualcosa che fosse specificamente e politicamente soltanto «di destra».
Come ipnotizzato dal personaggio Berlusconi (al pari di quasi tutto il mondo politico italiano, la Lega esclusa), egli ha badato solo a distinguersi puntigliosamente dal suo stile istrionico, dai suoi plateali modi di essere, dal suo linguaggio aggressivo. C’è riuscito. Ma pagando un prezzo che forse non aveva previsto: di ritrovarsi alla fine, come oggi si vede, sulla soglia della casa che fino ad oggi era stata la sua.

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