Senza senso?

Dalla Rassegna stampa

Lo ammetto di buon grado: nel commentare le risposte del cardinale Angelo Scola alle domande sottopostegli dal giornalista Benedetto Ippolito, sono stato (a parte le sgrammaticature teologiche che i competenti potranno riscontrarvi) un po' leggero. Il cardinale Scola aveva osservato come il nostro tempo postsecolare veda pullulare, e non solo più "nelle aule accademiche o nei laboratori degli scienziati", domande inquietanti come: "da dove vengo?", "dove vado?", "chi sono?", perché vivo?" "perché soffro?", "che cosa è la morte?", "che cosa c'è dopo la morte?", eccetera. Sono domande che intendono investire l'essenza profonda dell'uomo e il suo destino come anche il dopo della vita, cioè l'eternità. Nella mia colonnina, io avevo rimandato al socratico "conosci te stesso" ma anche agli insegnamenti di Buddha, l'Illuminato che ha aperto orizzonti spirituali non coincidenti con quelli ispirati a Gesù Cristo: come a dire che a certi interrogativi l'umanità ha trovato, nel suo cammino storico, risposte anche molto diverse tra loro. A questi riferimenti avevo aggiunto anche del mio, sostenendo che alle inquietanti questioni "si possano dare risposte valide (...) chiamando in causa e assumendosi la responsabilità di porre in essere (...) un politica fondata su una progettualità adatta al mondo di oggi, così dilatato e globalizzato". Non ho ragione di ritrattare.
Da buon laico, non posso non pensare che la problematica di fondo dell'uomo sia riferibile sempre, o in primissimo luogo, a motivazioni e a comportamenti che trovano le istituzioni politiche come punto di riferimento: se agisci bene in quegli ambiti - ecco le mie laiche certezze - se operi secondo diritto, e per creare diritto, fornisci una risposta anche ai più assillanti interrogativi che la tua coscienza, o il tuo essere umano ti pongono.
Benedetto Croce diceva che alle domande metafisiche, sull'assoluto, non c'è altra risposta se non quella che emerge dal concreto nostro operare nel quotidiano e nella storia: un operare che scioglie e disarticola le domande globali e preferisce fornir loro segmenti di risposta, aventi riferimento a singoli aspetti della domanda totalizzante, alla quale non serve (oltre che è impossibile) tentar di rispondere. Siamo sempre all'imperativo categorico kantiano, "agisci secondo i dettami della tua coscienza, fai quel che devi...", eccetera.
 
"Perché soffro?"
Mi rendo conto che la mia interpretazione può lasciare insoddisfatti, "Perché soffro?", è domanda che investe la teleologia del mondo: è la domanda sull'origine e il senso del male, della sofferenza, eccetera. Questioni più o meno analoghe sollevano interrogativi tipo "che cosa è la morte", "che cosa c'è dopo la morte". Un laico rigoroso, o un laicista di stretta osservanza, può rispondere che sono questioni, dubbi, privi di senso: dopo la morte c'è semplicemente il nulla, resta solo un pizzico di cenere. Ma questa risposta ha un sapore di ideologia perfettamente equivalente, pur se rovesciata, a quella del credente fiducioso che dopo la morte ci sia la vita eterna. Ciascuna delle due parti può esibire le sue prove o testimonianze: parlano due linguaggi differenti, ma nessuna delle due riesce a tacitare l'altra con dimostrazioni inconfutabili.
Ho un amico che, pur se laico, in una sua visione steineriana dell'universo ha una notevole fiducia che nell'aldilà, dopo la morte, qualcosa sopravviva. Anche lui ha le sue ottime ragioni. Di questi rompicapo, ai quali non pretendo minimamente di poter dare una ennesima soluzione, mi sono ricordato scorrendo una bella poesia di Rimbaud, " L'Eternité". È un appello all'amico Verlaine perché torni da lui, senza cedere alle convenzioni di una tranquilla vita borghese accanto alla banale moglie Mathilde, una vita dalla quale "nul orietur", non può nascere nulla. La prima quartina è restata celebre:
"Elle est retrouvée
Quoi?
L'Eternité.
C'est la mer
Allée avec le soleil".
Dove è l"'eternità", per Rimbaud ? È nel vivere secondo passioni, nel fulgore dell'amore assoluto. Anche quella di Rimbaud è una risposta possibile alla grande domanda sul "perché vivo": l'eternità va cercata non dopo la morte, ma nell'ardore di una esistenza vissuta intensamente, nel "raisonnable dérèglement de tous les sens" (ancora Rimbaud).
È una tesi eversiva, certamente, rispetto alle domande del cardinale Scola e alle risposte che a esse si possono e anzi, in una società bene ordinata, si debbono dare. Non dico che quella di Rimbaud sia la mia risposta né che sia '"la" risposta, quella più o meno obbligata del laico, che nega una vita dopo la morte. Ma c'è, e non si può ignorarla. Ci rimanda, peraltro, a un altro poeta, Eugenio Montale: "Il tuo cuore vicino / che non m'ode / salpa già forse / per l'eternità"; altrove, Montale evocherà anche una "eternità d'istante", Come negare che questi versi hanno un loro fascino?

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