Il semestre bianco della politica che il Paese non può permettersi

Come quasi sempre accade, la politica aspetta. Aspetta un evento risolutivo. In questo caso la pronuncia del Consiglio di Stato, dopo la quale si potrà decidere in via ufficiale la data delle elezioni regionali. Ma aspetta anche che i partiti dicano prima o poi una parola definitiva sulle ipotesi di riforma elettorale, dopodiché si potrà avere un'idea di quando voteremo per le politiche.
La disputa Bersani-Alfano sul sì o no all'accorpamento è una cosa seria e il compromesso di cui si mormora (il 3 marzo per riunire regionali e politiche) è per ora solo una media matematica fra le altre due date che campeggiano sui giornali: il 10 febbraio per le regioni e il 7 aprile per il Parlamento. Sarebbe l'uovo di Colombo, ma stavolta le questioni sono assai complicate e sono, come è evidente, di natura politica.
E dunque si aspetta. Cosa? Che maturino condizioni al momento assenti. Questa tendenza all'attesa permanente equivale a una confessione d'impotenza del sistema politico. Siamo quasi fuori tempo massimo e ancora non abbiamo una decente riforma elettorale, unica via ragionevole per accelerare lo scioglimento delle Camere. Abbiamo invece una discussione un po' lunare che ha per tema quando votare in due grandi regioni (Lombardia e Lazio) collassate per questioni morali. Il meno che si possa dire è che un sistema sempre più debole sta scherzando con il fuoco.
Ascoltando Giorgio Napolitano si avverte tutta la solitudine del Quirinale in questo frangente. Quando egli afferma: «Sono convinto che i padri costituenti non hanno immaginato per il capo dello Stato un ruolo che si risolve nel tagliare nastri alle inaugurazioni», si capisce che sta inviando un messaggio amareggiato e irritato alle forze politiche. Alle quali peraltro ricorda che il primo dovere del presidente consiste nell'assumersi le proprie responsabilità, pur senza invadere il campo del governo.
Napolitano rivendica fra le righe, in modo orgoglioso, la sua interpretazione del ruolo presidenziale. Tuttavia questo non può essere un bilancio perché alla scadenza mancano giusto sei mesi: un periodo che si annuncia turbolento, forse drammatico; un periodo nel quale le forze politiche, oltre che a combattersi in una troppo lunga campagna elettorale, dovranno preoccuparsi di dare qualche indicazione agli italiani su come intendono proteggere lo Stato dai rischi ricorrenti di dissesto finanziario. Dovranno farlo soprattutto perché si preparano a tornare in scena e, almeno a parole, negano che Monti possa restare a Palazzo Chigi dopo il voto.
Quest'anno, come è noto, non esiste il semestre bianco, causa la fine simmetrica della legislatura e del settennato. Ma il rischio è che si determini una sorta di semestre bianco morale. Per cui il capo dello Stato rimane isolato dai partiti, mentre questi ultimi non riescono a ricucire il tessuto lacerato del rapporto con la società. Il pericolo è reale e la mancata riforma della legge elettorale testimonia di questa situazione. L'impressione è quindi che il rapporto di Napolitano in queste settimane si svolga in particolare nel dialogo con il premier Monti. È quest'ultimo il garante della linea che tiene l'Italia ancorata all'Europa. Ed è lui il punto di riferimento di una vasta area politica che ancora non ha preso forma, ma che cerca in modo confuso il suo leader.
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