Se il mito della piazza imprigiona Bersani

La manifestazione di domani a Roma contro Silvio Berlusconi sta diventando il primo bivio politico della segreteria di Pier Luigi Bersani. E rischia di mostrare un Pd incline ad imboccare due strade diverse: una, ufficiale e maggioritaria, di non partecipazione; l’altra, minoritaria ma altrettanto convinta, di piazza. Si può anche pensare che questa scelta binaria sia un machiavellismo studiato a tavolino per arricchire l’identità del partito. Ma la realtà appare un po’ più contraddittoria. Il «no» di Bersani all’adesione è temperato dal «nulla osta» concesso a chi vuole partecipare. Ma l’elenco degli esponenti di vertice del Pd che saranno presenti comprende molti dei suoi oppositori, sconfitti all’ultimo congresso. Il risultato è che non si comprende esattamente quale sia l’atteggiamento del Pd. È forte il sospetto che l’approccio sia stato dettato dall’impossibilità di una scelta chiara: perché scegliere riaprirebbe contrasti interni che l’esito congressuale ha fotografato e misurato ma, pare di capire, non ricomposto; ed offrirebbe un profilo netto che il partito non è ancora in grado di assumere.
Non si può ignorare un dettaglio ingombrante: Antonio Di Pietro, sostenitore convinto del «no B Day», ha accompagnato la vigilia con bordate pesanti contro l’alleato e il suo segretario. Ed ha abilmente piegato la manifestazione ai toni e alle parole d’ordine radicali che di per sé già tende ad avere. Ma Di Pietro recita la parte di se stesso. Confondersi con la piazza rientra nella sua linea di sempre, che per scelta e calcolo condanna il centrosinistra all’opposizione. Il Pd, invece, anche in questa circostanza rischia di cavalcare qualcosa che non sa né può controllare: e con un solo piede nella staffa.
Il rischio di farsi male politicamente, dando l’impressione di assecondare o comunque subire un rito antiberlusconiano legittimo ma sterile, è evidente. L’esitazione a dire una parola chiara riconsegna un’identità fluttuante e ibrida del Pd. Lo sospende fra la volontà di Bersani di costruire un’alternativa di governo al centrodestra e di rimarcare le differenze col dipietrismo; e la realtà di un gruppo dirigente che fatica ad emanciparsi dalle vecchie parole d’ordine, condivise da una militanza in cerca soprattutto di conferme.
Di queste pulsioni, però, il segretario finisce per apparire prigioniero. Chiede sia rispettata l’autonomia del «no B Day» dai partiti, ma è una richiesta difensiva. Bersani si costringe a proseguire sulla strada di alleanze a dir poco competitive, in nome delle regionali di primavera. È un modo per rinviare un chiarimento che non riguarda tanto l’Idv quanto la strategia del Pd. Ne sottolinea i contorni in bilico fra riformismo e giustizialismo; fra ambizioni di governo e scorciatoie minoritarie.
La difficoltà a dare direttive univoche, per quanto giustificata in nome dell’ecumenismo, inchioda il Pd in una specie di gabbia precongressuale dove continuano a convivere strategie divergenti. In apparenza, le chiavi della gabbia sono nelle mani di Di Pietro. In realtà, è il partito di Bersani ad avergliele consegnate. E sembra non accorgersi che potrebbe riprenderle quando vuole, se solo tirasse le conseguenze dell’esito del congresso; e capisse che la piazza è un luogo nobile ma mitico, dove si coltivano scelte autoreferenziali e nostalgie, più che progetti per il futuro.
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