Se l'Italia cerca a Teheran una risposta per la Siria

La proposta del ministro Emma Bonino di coinvolgere l'Iran nella trattativa sulla guerra civile Siriana introduce un elemento di realismo in una vicenda trattata finora con schemi che hanno portato a comprendere ben poco dell’evoluzione della «primavera araba». E potrebbe dare luogo ad una ripresa di iniziativa della politica estera italiana dopo anni da quella intrapresa in occasione del conflitto fra Israele e Libano.
La proposta della Bonino, tuttavia, non ha scaldato l’interesse del mondo politico italiano per la politica estera. Da molti anni ormai in Italia, a parte la fortuna di avere ogni tanto un ministro degli esteri capace, non solo la politica estera, ma l’intera dimensione internazionale dei problemi è stata cancellata dal dibattito politico e dalla iniziativa dei partiti. E questo mentre si ripetono incessantemente parole quali «globalizzazione» ed «interdipendenza».
L’analisi della «primavera araba» quasi sempre non è andata oltre l’esaltazione delle forze della democrazia in lotta contro le dittature. In paesi come la Tunisia e l’Egitto, dai quali il movimento è partito, davvero i giovani, gli intellettuali, i disoccupati hanno innescato la rivolta, ma con le elezioni sono andate al potere forze islamiche tradizionali, da tempo radicate nel territorio; e non vi è stato nessun serio tentativo di capire perché ciò sia accaduto e di adattare l’iniziativa politica.
Il caso della Turchia mostra che partiti islamici al potere non contrastano necessariamente con lo sviluppo della democrazia, ma anche lì l’esito non è scontato; rischi di involuzione sono presenti, soprattutto in Egitto. Nella vicenda libica la primavera araba è stata solo un pretesto. La guerra civile è nata dall’esplosione di un conflitto antico tra diverse etnie, alimentata dagli sconvolgimenti in corso nell’area e dalla volontà di Francia e Gran Bretagna di riconquistare influenza in Africa, considerata la tendenza degli Usa a diminuire l’impegno in quell’area. L’Italia era il paese con i maggiori interessi commerciali e con i rapporti più stretti con la Libia, giunti fino al baciamano di Berlusconi a Gheddafi, ma la nostra diplomazia non ha avuto alcuna percezione dei sommovimenti che stavano per esplodere.
Oggi la Libia è una Stato semifallito, terreno di coltura di forze terroristiche che i Paesi occidentali hanno contribuito ad armare e che oggi controllano parte del paese, come dimostra anche l’assassinio dell’ambasciatore statunitense a Bengasi, a suo tempo capitale dei ribelli. La situazioni siriana presenta analogie con quella libica, ma è molto più pericolosa. Anche lì c’è un regime autoritario, anche lì giocano divisioni tribali e religiose, anche lì parte delle forze ribelli - che restano profondamente divise e che gli occidentali contribuiscono ad armare - sono legate ad Al Queda. Anche lì Francia e Gran Bretagna rinnovano la tendenza delle grandi potenze ad inserirsi nei conflitti locali per promuovere i propri interessi.
Il punto centrale è, tuttavia, un altro: la guerra civile siriana è l’attuale punto di esplosione di un conflitto storico fra sciiti e sunniti che dura da oltre mille e trecento anni, cova per lunghi periodi sotto la cenere e riesplode in determinate circostanze. La natura dei soggetti già coinvolti non lascia dubbi: paesi sunniti quali Arabia Saudita, la Turchia ed altri paesi del Golfo stanno sostenendo i ribelli, Iran e Hezbollah stanno appoggiando il regime di Assad. E c’era stato un precedente: quando la maggioranza sciita del Barhein, dominata come in Iraq dalla minoranza sunnita, suggestionata dalla «primavera araba» era insorta per chiedere votazioni democratiche che le avrebbero consentito di prendere il potere, cosa che in Iraq era accaduta in seguito all’invasione Usa, la rivolta è stata schiacciata dall’intervento dell’esercito dell’Arabia Saudita che tutti hanno fatto finta di non vedere. Ora anche in Iraq è ripresa la guerra fra sciiti e sunniti e nessuno se ne accorge.
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