Lo scrittore e i comunisti

Dalla Rassegna stampa

Tutto comincia col compagno Boccadutri. Senza il compagno Boccadutri,non si può capire Leonardo Sciascia e i comunisti. Ed Emanuele Macaluso, che è uomo generoso, lo rivela già nella dedica. E un vincolo politico e umano, che risale ai verd'anni di Macaluso e Sciascia, che li tenne legati l'uno all'altro, ed entrambi alla rabbia e alla promessa di allora, nella Caltanissetta «offesa» dalla dittatura eppure «piccola Atene» animata da un'intellettualità antifascista. Ma un altro antifascismo, che col primo conviveva, fu decisivo nel rapporto tra Sciascia e i comunisti, e mantenne forse ai suoi occhi una più alta dignità morale: quello di un operaio venuto da Favara, Calogero Boccadutri, che conobbe Terracini in galera, imparò lo studio e il socialismo, e trasferitosi a Caltanissetta tessé la rete clandestina del Pci.
Nella cellula clandestina Macaluso ritrovò Leonardo che, pur senza tessera, attingeva a libri proibiti dal «compagno bibliotecario» - si chiamava Michele Calà, e morì sotto le bombe per mettere in salvo quei libri. Se la storia non si fosse complicata, Macaluso avrebbe potuto fermarsi: da che parte poteva stare, Leonardo, se non dov'era chi moriva «per un pugno di libri»? Il tempo del fascismo fu l'ultima stagione della vita che non visse da «eretico». Da allora, lo fu sempre, fin dall'immediato dopoguerra. E se votò Pci fino a metà anni Settanta fu in adesione a quel paradosso di Brancati, secondo cui «in Sicilia, per essere liberale, bisogna votare almeno comunista». Tra Brancati e Boccadutri - tra lo scrittore e il minatore - era lo spazio di passione ideale e umana in cui quella coscienza «politica» inquieta trovò a lungo approdo.
Nel partito di Li Causi, quello di «né mafia, né Mori»: formula che racchiude i capisaldi di un ideale che legò e lega Macaluso e Sciascia - e con la forza della sua arte espresse in quel capolavoro che è Il giorno della civetta, equivocato ancora oggi dai «cretini» (o dagli «intelligenti in malafede»). Per il resto, la distanza politica tra Sciascia e il Pci era ben chiara: e tra Macaluso e Sciascia, il comunista "togliattiano" artefice dell'«operazione Milazzo» e l'intellettuale che ripudiava ogni «compromesso» col potere. Il Potere fu la sua ossessione. Ossessione che spiega la sua contrarietà a un Pci «di governo» e, per altro verso, molto dopo, spiegherà Il contesto: i momenti di più grave dissenso dal Pci. Dissensi non annullati nemmeno negli anni in cui si candidò al Consiglio comunale di Palermo e fece campagna per le politiche col Pci, illuso dai giovani dirigenti «intransigenti» che la politica del «compromesso storico» non avrebbe attraversato lo Stretto. Le alleanze con la Dc, promosse con solerzia da quegli stessi dirigenti siciliani, furono vissute da Sciascia come un inganno. Probabilmente da lì, per Macaluso, scaturì anche una specie di risentimento personale che segnò la fine del rapporto col Pci, fino ad allora nutrito da scontri ma da un dialogo e un rispetto costanti, e la «felicissima» e «liberatrice» adesione ai radicali. E poi le lacerazioni su Moro e il terrorismo. Macaluso ritesse il filo di una «conversazione interrotta» e si sofferma infine sull'attualità «politica» di Sciascia, su temi come la mafia e la giustizia, denunciando l'appropriazione indebita che ne ha fatto la destra dell'impunità ad personam e del garantismo bestemmiato. E si chiede se la tensione sciasciana per la giustizia è archiviabile per una sinistra democratica. Commentando lo scritto largamente travisato sui professionisti dell'antimafia (o gli articoli memorabili in difesa di Tortora e di Adriano Sofri) e le reazioni scomposte e infami che seguirono, dà il senso di una battaglia che vale ancora, a partire dalla denuncia del cedimento culturale di una sinistra che, come avrebbe detto Sciascia, «ha sostituito la bilancia della giustizia con le manette».
Su questo - dopo Berlusconi, magari - potrebbe venire il tempo di un ripensamento. E a partire dal libro di Macaluso, molto è da cominciare a rileggere, e a ripensare. Sapendo, però, che fare i conti con lo Sciascia «politico» e «civile» impone di risalire alla sua visione del mondo, della libertà dell'uomo che non può mai prescindere dalla «giustizia» e dalla «verità». E dalla «memoria», vorremmo dire: decisiva per Sciascia, decisiva in questo libro. C'è qualcosa di strettamente personale, nell'affetto sempre serbato tra Leonardo ed Emanuele, che riaffiora nei giorni angosciati dell'agonia dello scrittore e che risale, forse, al ricordo dell'amicizia tra suo fratello Giuseppe e i fratelli Macaluso (compagni di scuola).
Il suicidio di Giuseppe, ventenne, in zolfara, segnò col dolore più fondo e taciuto la vita intera di Leonardo. Quel vincolo della memoria, forse, precedeva persino quello maturato nella clandestinità. Tempo in cui, come mai più per Leonardo (e per Emanuele), la politica coincise con le relazioni umane e con la dignità: con gli uomini, «i Boccadutri»...?

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