Gli scontenti da recuperare

Numerosi sondaggi - prendiamo per tutti quello di Euromedia Research, commissionato dal presidente del consiglio - certificano quella che è peraltro una sensazione diffusa e percepibile: che il partito dell’astensione e dello "scontento" oscilla tra il 34 e il 38 per cento, ed è virtualmente il partito di maggioranza relativa; magari giunti al dunque, si assottiglierà, però come viene opportunamente osservato, è "la prima forza del paese". Per il resto, il Pdl si attesta sotto il 30 per cento; la Lega sul 12 per cento; la Destra al 2 per cento. Insieme, questa coalizione - sguaiata, di potere, arruffona quel che si vuole, ma coesa - tocca circa il 43,7 per cento. Il Pd è sul 24 per cento. L’Italia dei valori è sul 6 per cento, ma in netta erosione e vistoso calo di consensi (e si capisce); la Sinistra di Nichi Vendola è al 4 per cento e giorno dopo giorno sembra erodere consensi all’Idv e al Pd. Tirate la somma, e ammesso che uno più uno più uno faccia almeno tre, e non meno di due come in politica spesso accade, e avrete il 36 per cento. Volete aggiungere, come qualcuno calcola, Rifondazione comunista (2,8 per cento), movimento di Beppe Grillo (2,5 per cento), radicali (1,6 per cento)? La somma di questa coalizione arriva al 42,3 per cento. Anche voler fare questo tipo di "ingegneria" appare evidente che c’è comunque da fare i conti con la formazione-patchwork deve fare i conti con Gianfranco Fini e l’Udc di Pierferdinando Casini. Una grossa e grassa coalizione che non si capisce dove possa portare, ammesso che calcoli e ragionamenti di questo tipo possano portare da qualche parte.
Il problema, comunque, è cercare di conquistare quel 34-38 per cento di "scontento" che si astiene; e in generale, il problema di una forza politica è quella di sottrarre consenso all’avversario, di rendersi credibile agli occhi di chi non ti ha votato e ha dato fiducia a quello schieramento di cui si vuol essere l’alternativa. È evidente che Antonio Di Pietro, Vendola, Grillo non sottraggono un voto che sia uno allo schieramento avversario; la "poesia" di Vendola, l’uso disinvolto della grammatica di Di Pietro, le stramberie (e fermiamoci a questo) di Grillo possono riscaldare il cuore di un popolo di sinistra confuso e avvilito; ma come collante non paiono dei migliori. Per altro, non bisogna dimenticare che se il leghista Cota governa la regione Piemonte bisogna ringraziare i "grillini"; e se in Puglia governa Vendola, occorre ringraziare anche, se non soprattutto Adriana Poli Bortone, "grillina" di altro segno (e diversissima qualità, beninteso; ma nel caso specifico, il ruolo giocato è stato quello). Sarà un caso - e se lo chiedono, al Pd, se lo domandano i componenti del Pd in commissione parlamentare di vigilanza, sempre che ci siano ancora - perché Di Pietro e Vendola hanno tanto spazio mediatico, perché godono di tanta visibilità?
Ci sono poi due casi, evidenti e che non vede solo chi ha deciso, come si diceva, d’esser cieco. A garantire quel valore aggiunto che ha consentito a Romano Prodi di vincere le elezioni sono state alcune centinaia di migliaia di voti conquistati dalla coalizione della Rosa nel Pugno; in quell’occasione - tutti gli istituti di ricerca e studio dei flussi elettorali sono unanimi nel riconoscerlo - la coalizione radicali-socialisti è riuscita a fare breccia in settori di pubblica opinione che erano inaccessibili al centrosinistra; voti sottratti al centrodestra e all’astensione, e portati alla coalizione guidata da Prodi. Voti che sono risultati determinanti per vincere.
Il secondo esempio si chiama Emma Bonino; in corsa per la guida alla Regione Lazio, partita in condizioni che definire di sfavore è poco (caso Marrazzo); quella Roma che aveva detto no al balletto Rutelli-Rutelli-Veltroni-Veltroni-Rutelli, e consegnato le chiavi del Campidoglio e dei municipi a Gianni Alemanno, ha votato in massa Bonino, non Polverini. Quel voto, andrebbe studiato, e comparato con i risultati ottenuti appunto da Rutelli e - anche - da Zingaretti. Entrambi a Roma hanno perso; mentre Bonino ha vinto. Significa che Rutelli e Zingaretti non hanno le capacità di attrattiva che ha Bonino; significa che i radicali riescono ad entrare - se li si mette nella condizione di poter essere conosciuti, valutati, pesati per quello che sono e dicono di voler fare, là dove i "campioni" del Pd e del centrosinistra non hanno accesso.
Mettete insieme tutti questi elementi, ed è facile ricavare che si dovrebbe fare; la domanda da porre, a questo punto, è: perché non viene fatto? Una ragione ci dovrà pur essere. Però è una ragione che, francamente, non si riesce a comprendere e capire.
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