Sciascia, non difendete la mia memoria

Dalla Rassegna stampa

Nella condizione di vita apparente di questi tempi, sempre più mi è venuta la paura - lontana, infantile, ma anche letteraria - della morte apparente. Prego dunque familiari e amici che la mia morte venga accertata al di là di ogni dubbio, magari arrivando a quel che la legge chiama vilipendio di cadavere. Poiché avrò l’ovvio privilegio di non esserci, sono indifferente a qualsiasi cerimonia o rito funebre. Tuttavia mi piacerebbe andarmene - come si suol dire - alla mia ultima dimora, nel modo e nell’ora più discreta: senza annunci, senza necrologi, senza discorsi.
Raccomando ai miei familiari e amici di non perder tempo a difendere la mia memoria, a correggere giudizi o interpretazioni che riguardano la mia vita e i miei scritti, per quanto ingiusti o di malafede possano essere. Ho vissuto semplicemente, senza ambizioni o vanità, senza perseguire alcun vantaggio personale: chi non ha voluto accorgersene, chi si è sentito ferito dalle cose vere che ho detto e ha fanaticamente reagito, non sarà mai in grado di ravvedersene. Ma alla distanza, i miei allarmi, le mie constatazioni e contestazioni, suoneranno sempre più di verità. Di questa piccola immortalità - nel senso che andrà, anche se di poco, al di là della mia morte - sono certo.
La Lettera 22 con cui fu scritta è qui, nello studio della casa dove Leonardo Sciascia morì vent'anni fa. Sulla scrivania, civette diventate amuleto di famiglia, monete antiche e un calendario da tavolo fermo al 20 novembre 1989, l’ultimo giorno di vita dello scrittore. «Non abbiamo più voluto toccare la data», racconta la figlia Anna Maria, tormentando tre le mani la lettera-testamento che il padre lasciò in tre copie a lei, alla primogenita Laura e alla moglie. Due fogli dattiloscritti, datati 24 maggio 1989, di cui nessuno in famiglia ha mai voluto parlare. Forse per il divieto, che proprio questo scritto contiene, di pubblicare lettere private, o forse per pudore. Adesso il tempo per lei è maturo, il tempo di ripercorrere quelle righe, di rifletterci su, di fare i conti con un padre «che è stato il più grande amore della mia vita, che la sera prima di morire mi disse: “Non doveva andare così”».
Ecco allora l’incipit di quel testamento, davanti al quale la fotografia di Pirandello - compagna inseparabile di Sciascia - sembra quasi sorridere, tanto esplicitamente pirandelliana è la sua ispirazione. «Nella condizione di vita apparente di questi tempi - scrive lo scrittore - sempre più mi è venuta la paura - lontana, infantile, ma anche letteraria - della morte apparente. Prego dunque familiari e amici che la mia morte venga accertata al di là di ogni dubbio, magari arrivando a quel che la legge chiama vilipendio di cadavere». Non a caso si attesero due giorni prima dei funerali, proprio per rispondere al suo terrore - che quasi fa a pugni con il suo illuminismo - di essere sepolto vivo, quella paura riferita da Matteo Collura nel suo Maestro di Regalpetra.
Poi le disposizioni sulla sepoltura, di marmo bianco, semplice, nel cimitero di Racalmuto, con l’epitaffio. «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta» che tante interpretazioni ha suscitato. «Una frase - dice Anna Maria - che per me è sempre stata chiara. C’è l’auspicio di guardare il mondo da qualche altra parte, c’è la fede di mio padre, fede intensa, anche se nutrita di dubbio. Non vennero preti, qui, quando stava per morire, ma non credo davvero che ce ne fosse bisogno. Mi ricordo di una volta, quando mio figlio Fabrizio era piccolo e non sapeva dire il Padre Nostro, lui si arrabbiò moltissimo».
E infine il testamento spirituale, il divieto di difendere la sua memoria, «di correggere giudizi o interpretazioni che riguardano la mia vita e i miei scritti, per quanto ingiusti o di malafede possano essere». Volontà che spiega i tanti silenzi della famiglia in questi vent’anni, silenzi mantenuti a dispetto delle polemiche periodiche sui professionisti dell’antimafia o sulle posizioni sul terrorismo. Sciascia scrive la lettera sei mesi prima di morire, «ma ancora coltivava la speranza di farcela, e non aveva perso il suo spirito: quando era in ospedale, ai medici che gli chiedevano se ci fossero state malattie tra i suoi avi, rispondeva che erano morti tutti di vecchiaia, e non era vero», racconta la figlia mostrando la collezione di sigilli lasciati in eredità a suo figlio, Fabrizio Catalano, oggi direttore di quel teatro di Racalmuto per la cui salvezza Sciascia combatté. L’altro, Vito, sta per dare alle stampe il suo primo libro.
Ricorda la fine: «L’ultima sera aveva detto che voleva stare solo, ma io l’ho contraddetto e gli sono stata accanto. Il giorno prima i miei figli erano entrati nella sua stanza, litigavano per stabilire chi fosse il più grande tra Edgar Allan Poe, sempre amato da Fabrizio, e Robert Louis Stevenson, il favorito di Vito, e volevano che il nonno dicesse la parola definitiva. Lui se l’era cavata salomonicamente, dicendo che nel loro genere erano grandi tutti e due. Poi, il 20, fu lui a dire a mia madre che stava morendo, come sempre sapeva che cosa sarebbe successo». Quello sguardo, lucido, quasi profetico, che nella lettera-testamento in qualche modo rivendica, quando scrive: «Alla distanza, i miei allarmi, le mie constatazioni e contestazioni, suoneranno sempre più di verità. Di questa piccola immortalità - nel senso che andrà, anche se di poco, al di là della mia morte - sono certo».
Lei ha appena dato alle stampe, per Avagliano, un libro che si chiama Sciascia Pirandello, il gioco dei padri in cui attraverso il racconto delle donne di famiglia dello scrittore agrigentino parla di sé. «Mi sono immedesimata in Antonietta, ho rivisto in me il suo senso di inadeguatezza, il suo complesso di inferiorità nei confronti della letteratura, il suo sentirsi avulsa dal mondo. Ho imparato a studiare da grande, ma dopo le medie non volevo neanche andare più a scuola, e mio padre mi assecondava pure. Lui in fondo era un uomo all'antica, professava la parità femminile nei suoi scritti ma con noi era severo. Da uomo di paese, temeva il giudizio della gente, e guai se mia madre metteva una scollatura o se io indossavo la minigonna. Quando si sposò mia sorella Laura, lui che non spargeva mai una lacrima pianse come una fontana». Adesso è lei che ha gli occhi lucidi: «Sono passati vent'anni, ma la sua assenza mi fa ancora stare male».
 

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