Sciascia e i comunisti diversi eppure vicini

Dalla Rassegna stampa

È appena uscito l’ultimo libro di Emanuele Macaluso, che già dal titolo: Leonardo Sciascia e i comunisti, si presenta come una sorta di "resa dei conti", di un discorso rimasto in sospeso che adesso deve essere chiuso: quello del rapporto del grande scrittore di Racalmuto con il Partito comunista italiano e, più in generale, con la vita politica siciliana e nazionale.
Un testo, questo di Macaluso, che riapre una discussione sui contrasti e sui conflitti che portarono Sciascia prima a impegnarsi nelle liste del Pci per le elezioni al Comune di Palermo, nel 1975, dove da indipendente fu eletto consigliere con grande successo di voti e di sostegno popolare, uscendone pochi anni dopo con clamore, per candidarsi poi nelle liste del Partito radicale, al parlamento italiano e in quello europeo. Non mancheranno le polemiche e le molteplici versioni e visioni di chi ha conosciuto Sciascia, da vicino o da lontano, e ha avuto modo di frequentarlo durante la sua permanenza al Consiglio comunale di Palermo, ma anche fuori, prima e dopo. Né mancheranno detrattori e agiografi, perché forse proprio questo ha voluto l’autore: levarlo dalla smemoratezza di tanti per riproporlo nell’interezza della sua forza morale e della lungimiranza politica di fronte alla prepotenza e allo sfacelo, pubblico e privato, dell’oggi. Perché Leonardo ha saputo - nei suoi libri, ma più ancora negli articoli pubblicati su L’Ora, l’Unità, il Corriere della Sera - come pochi altri - forse solo Pier Paolo Pasolini e Adriano Sofri bacchettare l’Italia e gli italiani sui loro comportamenti e sentimenti, così infarciti di "moralismo amorale", di pochezza intellettuale, di interessi di bassa lega, di indifferenza collettiva.
 Il libro ha molti piani di lettura e di documentazione. A cominciare galla fine, dove in appendice sono riportati gli articoli di giornali e giornalisti di rango che interloquivano e intervenivano sulle "uscite" dello scrittore, a partire da quei Professionisti dell’antimafia che tante discussioni continua ad ,,.alimentare, ma anche a ogni nuovo libro che veniva pubblicato e ogni volta riusciva a suscitare e riaccendere grandi amori e infiniti rancori. Infatti l’autore così conclude: «Leonardo Sciascia parla ancora alla società di oggi e alla sinistra [che] dovrebbe ripensare al suo difficile rapporto con lo scrittore racalmutese per ripensare anche alla sua politica sulla giustizia. Non so se queste pagine potranno aiutare questo ripensamento. Ne dubito. Io le ho scritte perché sentivo di avere un debito con Leonardo.... [che] scrisse: "Tutto è legato per me al problema della giustizia: in cui si involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo"... Non so se il chiarimento ci sia stato, Sciascia non può dircelo, ma io sono più tranquillo».
 Ci piace cominciare dalla fine perché ci è parsa, questa parte del libro, riassumere un grande sentimento condiviso: quello dell’amicizia tra due uomini, così simili e così diversi, del loro rapporto con la politica, ma soprattutto del loro rapporto con la Sicilia. Macaluso ci consentirà, allora, senza aversela troppo a male, di evitare di entrare nel merito del dibattito sulle questioni più propriamente politiche e partitiche che egli ha voluto affrontare, provocando una discussione che sicuramente si aprirà a ogni nuovo incontro di presentazione, per rimanere invece in questa dimensione, vien da dire "più umana", che è riuscita a tracimare dal severo controllo di un vecchio uomo politico di 86 anni, come si dichiara lui stesso.
 Una dimensione - un piano di lettura - che affiora fin dai primi capitoli, quando Emanuele ricorda i suoi anni da ragazzo nella provincia interna di Caltanissetta: gli anni del fascismo, gli anni delle zolfare, le condizioni di vita annientate dalla povertà e dall’ignoranza. E l’insorgere in quei ragazzi dei primi barlumi di consapevolezza politica: per merito di un bibliotecario comunista, di un professore antifascista, di piccoli artigiani che non piegavano la testa, di operai e braccianti a schiena dritta.
Sono pagine autobiografiche di bellissima scrittura. Che danno vita a un grande affresco della Sicilia negli Anni Venti, Trenta e Quaranta. E poi, alla fine della guerra e dopo la Liberazione, del grande sogno di riscatto delle nuove generazioni che venivano avanti e di un intero popolo che sarà invece di nuovo umiliato dalle classi dominanti, passate senza soluzione di continuità dal fascismo alla Democrazia cristiana, dalla vecchia mafia del latifondo alla nuova mafia del sacco delle città.
 Scrive l’autore, nelle prime pagine del libro, su come conobbe Sciascia e suo fratello Giuseppe, che «studiava all’Istituto tecnico minerario, nella stessa classe di mio fratello Antonio. Non ho mai saputo perché Giuseppe fosse un alunno del "minerario". Qui si ritrovavano ragazzi, figli di operai, che avevano concluso con profitto la scuola di avviamento al lavoro. Giuseppe non aveva frequentato con noi quella scuola e forse aveva conseguito la licenza media a Racalmuto... era un ragazzo intelligente, gentile, ma timidissimo... Quando conseguì il diploma il padre lo volle con sé al lavoro in una piccola miniera, la Bambinello, che si trovava in una landa feudale dell’Ennese. Si intristì al punto di suicidarsi. Per Leonardo fu una ferita mai rimarginata... La miniera non uccideva solo con il grisù, ma anche con l’isolamento e la brutalità di un’esistenza trascorsa tra uomini che lavoravano come bestie, rischiavano la vita, mangiavano pane e pomodoro... Non è, questa, una digressione precisa Emanuele Macaluso - perché ci conduce alla domanda: come e quanto influì l’assetto sociale in cui vivevamo negli anni trenta-quaranta, con la dittatura fascista e le guerre, sulle scelte che facemmo, noi giovani, di lottare con il Partito comunista per la liberazione e l’emancipazione della nostra gente?».
 Ecco, ci piace aprire e chiudere questo piccolo contributo alla lettura del libro di Macaluso con questa struggente suggestione. Perché quella domanda aleggia, ha aleggiato, su gran parte di noi che facemmo quella scelta, anche in anni successivi, anche da luoghi lontani, per effetto di spinte diverse e attraverso esperienze e percorsi dissimili. Perché sentivamo sulla nostra carne che le ragioni dei più deboli erano le ragioni forti di una grande speranza; e sentivamo su di noi e dentro di noi il peso e la responsabilità di un’intera umanità in cammino. Ed è per quella idea - anche se oggi sembra tutto inutile e degradato - che oggi esistiamo e resistiamo ancora. Per che cosa, sennò?

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