Schiaffo agli ispettori così gli Ayatollah sfidano Israele e Obama

Dalla Rassegna stampa

Nulla cambia, molto cambia. Il 21 febbraio è stata una data cruciale, dicono all'intelligence israeliana: «Perché, da adesso, la strategia iraniana è più chiara. E anche il nostro modo di giocare la partita». Che cos'è dunque successo, martedì? Dopo le aperture delle scorse settimane, gli ayatollah hanno nuovamente chiuso la porta in faccia all'Agenzia atomica internazionale: vietato entrare nella base di Parchin, il più sospettabile dei siti.

Gli ispettori se ne sono tornati a Vienna senza quei documenti che «facilitino il chiarimento delle questioni irrisolte», ovvero «le possibili dimensioni militari» del programma nucleare. Fra una settimana presenteranno il loro rapporto ed è immaginabile non sarà migliore dell'ultimo, quello che già aveva inserito Parchin fra gli obbiettivi dei bombardieri israeliani. Rassicura poco la Guida suprema Khamenei, quando ripete che la Bomba è «un peccato» che non rientra nei progetti sciiti. La penitenza che da Gerusalemme si preparano a infliggere si basa su una certezza: entro sei settimane, dicono, l'Iran avrà quasi tutto l'uranio che serve a scopi militari; entro tre anni, sono certi, avrà missili abbastanza potenti per colpire addirittura Washington o New York. Sei risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu, quattro raffiche di sanzioni non hanno fermato le turbine. E in Israele ha sempre più voce chi vuole giocare duro. Tra una dozzina di giorni, il premier Netanyahu andrà alla Casa Bianca dell'odiato amico Obama: il primo non può attaccare ignorando il secondo; il secondo non può farsi rieleggere snobbando il primo. Ma tutt'e due, e questo è forse il guaio, ci hanno abituato a fare ugualmente a meno l'uno dell'altro.

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