La scelta dell'Europa bonsai

Sul Corriere della sera di domenica Mario Monti ha efficacemente sottolineato i pregi della scelta per la presidenza del Consiglio europeo di un esperto mediatore come Herman Van Rompuy; e ha diplomaticamente (o cavallerescamente?) taciuto su quella di Lady Ashton ad Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione. Gianni Riotta sul Sole 24 Ore di martedì ha invece convincentemente motivato le ragioni che spingono la maggioranza degli osservatori a vedere nella scelta del «bonsai Van Rompuy & Ashton» la rinuncia al «sogno di un’Europa leader di pace e di sviluppo» e la resa a un «condominio di governi» capaci di coltivare solo ambizioni nazionali. Con l’ottimismo della volontà, ci possiamo augurare che i fatti diano ragione al primo; col pessimismo della ragione lo dobbiamo considerare purtroppo assai poco probabile.
Resta in ogni caso il fatto che la decisione del 19 novembre, considerata nel suo complesso, segna la prevalenza della logica intergovernativa nella costituzione materiale dell’Unione europea; e, nel contempo, vale a consolidarla, bloccando quella pur moderata evoluzione in senso comunitario che il Trattato di Lisbona sembrava favorire.
Da un lato, la decisione dei capi dei governi socialisti, rovesciando le indicazioni del gruppo dei Socialisti e dei Democratici europei, ha dimostrato infatti che i partiti europei e i gruppi parlamentari costituiti in seno al Parlamento europeo non hanno la forza politica per condizionare i capi dei governi, anche quando essi rappresentano soltanto una minoranza degli Stati e un’ancor più ristretta minoranza dei cittadini dell’Unione. Dall’altro, sembra improbabile che i nuovi rappresentanti istituzionali dell’Unione possano comunque fare ombra ai leader nazionali più autorevoli (da Angela Merkel a Nicolas Sarkozy) sul proscenio della politica internazionale.
Ma, soprattutto, resta il fatto che, ancora una volta, una decisione attinente le istituzioni e la politica dell’Unione ha finito con l’essere adottata in un negoziato fra capi di governo dominato dagli interessi e dalle logiche nazionali di ciascuno di essi. E ciò, nonostante il buon esempio dato, una volta tanto, dal Governo italiano; che, candidando ad Alto rappresentante Massimo D’Alema, sembrava aver costretto i leader europei a misurarsi con una proposta capace di coniugare un legittimo interesse nazionale (quello di avere per un italiano un ruolo rilevante nel nuovo governo dell’Unione) con l’interesse dell’Unione ad affidare gli incarichi più delicati a personalità esperte, autorevoli e apprezzate (dello stesso genere sarebbe stata una eventuale candidatura di David Milliband da parte di Gordon Brown).
Tra i vincitori della partita, sul terreno politico-istituzionale, vi è certamente il presidente della Commissione Barroso, che sarebbe uscito di fatto indebolito dalla scelta per la presidenza del Consiglio europeo e per l’Alto rappresentante per la politica estera di personalità più forti e autorevoli di quelle di Herman Van Rompuy e di Lady Ashton. Ma la sua potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro: avere evitato di condividere la guida dell’Europa con un D’Alema o con un Milliband, ma trovarsi un’Europa ridotta a un condominio di periferia, ai margini dei processi decisionali del nuovo mondo multilaterale. Vittoria di Pirro potrebbe anche rivelarsi quella dei leader dei governi socialisti: se un’Europa più debole può forse lasciare spazio al protagonismo di Nicolas Sarkozy e di Angela Merkel, difficilmente troveranno posto, allo stesso tavolo di Obama, Hu Jintao e Putin, anche Berlusconi e Zapatero (per non parlare di Gordon Brown, che rischia di perdere, alle prossime elezioni, anche il titolo per sedersi sugli strapuntini dei comprimari).
Tra i perdenti, c’è sicuramente il Parlamento europeo. Col senno di poi, si può dire che ha probabilmente perso qualche mese fa, con la anticipata conferma del presidente della Commissione europea, un’occasione storica per rafforzare il suo ruolo e utilizzare al meglio alcune delle più importanti innovazioni istituzionali introdotte dal Trattato di Lisbona per rilanciare il processo comunitario. Tenendo nelle sue mani il potere di confermare o meno la scelta di Barroso, avrebbe potuto entrare in partita, in un confronto negoziale con i capi di governo certo non ad armi pari, ma dall’esito non scontato.
È vero che l’esito della partita non può - purtroppo - sorprendere gli osservatori attenti della realtà politico-istituzionale attuale dell’Unione europea; essi sanno che la costruzione europea si basa su un equilibrio tra principio intergovernativo e principio comunitario; e che accelerazioni e forzature in direzione di quest’ultimo possono avere effetti controproducenti e generare reazioni pericolose.
Ma una cosa è un equilibrio accettabile tra principio intergovernativo e principio federale-comunitario (ancorché segnato da una qualche prevalenza congiunturale della logica intergovernativa); tutt’altra cosa è un forte regresso verso l’incontrastato dominio del principio intergovernativo e degli interessi nazionali. Tanto più se questo regresso interviene dopo che la crisi economico-finanziaria del 2008-2009 ha dimostrato l’inadeguatezza di risposte puramente nazionali. E tanto più se questo regresso avviene dopo che l’evoluzione dello scenario politico mondiale, tra G2 e G20, sempre più chiaramente richiede che l’Europa sappia partecipare da protagonista alla costruzione del nuovo assetto multipolare e alla definizione delle nuove regole dell’economia, della finanza e del commercio globale: da protagonista, dunque con una voce sola, non con una pletora di comprimari, destinati a fare la fine dei vasi di coccio nel confronto fra le nuove e le vecchie superpotenze dell’economia globale.
© 2009 Radicali italiani. Tutti i diritti riservati
SU
- Login to post comments