Saviano, il messia non basta più

Di nuovo Fazio e Saviano, e di nuovo sulla Rai. Dopo la parentesi La7, ecco che è stata «sanata la ferita», come spiega Fazio nel presentare Saviano. Solo che i numeri sono un po’ diversi. La prima puntata di Che tempo che fa edizione Saviano ha fatto infatti il 10% di share contro il 25% realizzato dalla prima puntata di Vieni via con me.
E però i due appuntamenti non sono paragonabili. Vieni via con me era un’altra cosa, perché era stato venduto come evento unico e irripetibile, e si sa che la tv eventizzata consente grandi numeri. Ma adesso che Saviano-Fazio si fanno seriali, appuntamento settimanale come molti altri, possono ancora raccogliere così tanti spettatori? Ovvio che no, è da mettere in conto. Forse certo ci si aspettava qualcosa di più. Rimarrà costante tale ascolto? O decrescerà? Il dilemma di fondo, intimamente legato a questo cambiamento di status (da show evento a show seriale), è: questo format messianico ha o meno fatto il suo tempo? L’abbiamo già scritto, non amiamo la messa tetra di Fazio-Saviano. È come se il pubblico fosse obbligato a espiare i suoi peccati sociali e culturali durante la visione.
Un obolo dovuto, che forse però si è disposti a versare solo un tot di volte all’anno, non ogni settimana. Un obolo inoltre che non smuove l’animo, ma pacifica la coscienza.
Non pone domande o dubbi, ma ci ricorda che siamo colpevoli di qualche dimenticanza. E nel momento in cui ci rammenta tali oblii, automaticamente ci assolve. Sì, abbiamo celebrato questa sera i morti per mafia, i cassaintegrati, i disabili, adesso possiamo andare in pace.
Il problema è anche la costruzione linguistica di questo “spettacolo civile”, composto da differenti momenti. L’intervista è un genere ben preciso, e quella di Ruini è stata interessante. Il monologo pure è un genere ben preciso, ma Saviano ormai imita se stesso, nelle pause, nei gesti, nei sospiri, e mancano una certa cura linguistica e una certa costruzione narrativa. Infine, il problema più forte è quello legato al “format leggio”, ovvero quando una persona comune legge sue o altrui esperienze da una testo scritto posato, appunto, su un leggio.
È tutto così straniante: le persone leggono la loro vita che diventa così qualcosa di distante, e invece noi vorremmo che ci gettassero in faccia tutto il dolore, la rabbia, la frustrazione di cui sono capaci. Non si tratta di renderli “casi umani”, ma di liberare il potenziale dell’umano. Di non comprimerlo, così che ci possa veramente destare senza rasserenare, così che ci possa mandare a quel paese e non in pace.
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