Santi a Roma

Dalla Rassegna stampa

 

Andateci, andateci subito, alla mostra “Il Potere e la Grazia”, sontuosamente allestita a Palazzo Venezia (Roma). Andateci voi credenti, naturalmente, ma ci vadano anche gli atei, i non credenti e i miscredenti, i laici e gli impenitenti laicisti. Tutti avranno da imparare, tra gli scenografici meandri inseriti nelle sale di Palazzo Venezia (a stento abbiamo potuto intravedere il soffitto del salone nel quale lavorava Mussolini): perfino i credenti i quali - affidandosi ai ricordi del catechismo della prima comunione - pensano di saperne a sufficienza, del cattolicesimo, della chiesa, dei santi. Anche loro apprenderanno, di sicuro per la prima volta, cose, temi, notizie che ovviamente hanno sorpreso me, ignorante delle cose relative al sacro (al “numinoso?”). Una mostra per tutti, insomma. Innanzitutto grazie alla qualità delle opere esposte: il mirabile San Giorgio del Mantegna, che nelle fotografie sembra in grandezza naturale ma è solo una tavoletta di cm. 66x32, Tiziano, Caravaggio e Tiepolo, Van Eyck e Memling, bellissimi Altdorfer e Lorenzetti, un Beccafumi affascinante, un altisonante Luca Giordano, ma soprattutto pezzi non facilmente visitabili, come il “San Nicola arcivescovo di Mira” del XVI sec. - quasi un preludio a Klimt - proveniente da quel museo Tret’ jakov di Mosca dove, mezzo secolo fa, scoprii lo splendore delle icone bizantine, il ”gold enamelling” cantato da Yeats.
 
Ma, al di là della qualità delle opere, la mostra ci vuole ricordare o instillare nozioni ignorate o certezze non accettate da tutti. In primo luogo, che l’Europa ha radici cristiane sprofondate nella notte dei tempi e da evocare urgentemente oggi mentre si discute del futuro del Vecchio Continente, nella sua illusione di tornare ad essere un’altra volta il centro della storia come fu nel suo medioevo imperiale. Una autorevolissima introduzione al catalogo esplicitamente deplora l’odierna “tecnocrazia” senza memoria e senza identità che vuole operare una “cesura” da quel passato. Per la verità, la stessa introduzione si lascia scappare un paio di gaffes: una quando parla di “Occidente cristiano” mentre nella mostra sono presenti anche opere provenienti dall’Oriente cristiano di Cirillo e Metodio; un’altra quando fa cenno all’”incontro e scontro tra potere e religione”: una espressione che mette in crisi il significato della mostra, intesa ad esaltare il felice incontro, avallato da questi santi protettori, tra le due forze spirituali. In secondo luogo, la mostra ci rende edotti dalla grande varietà di tipologie della santità. A noi profani appaiono uguali, omologabili una all’altra, e invece no, ci sono santi e santi: ci sono santi mitici, ipostasi di esigenze spirituali, da San Sebastiano a San Giorgio e forse San Martino, quello del mantello donato al povero, che un po’ possono essere assimilati agli eroi o agli dei dell’antichità; ci sono altri che sono divenuti santi per la loro umana e concreta opera, da San Francesco a Santa Caterina da Siena a San Luigi re di Francia; e infine figure culturalmente inevitabili a prescindere dalla loro santità, come Cirillo e Metodio... Passando in rassegna questa affascinante tipologia mi chiedo che senso può avere oggi la questione della santità. Nella mostra sono presenti opere dell’ottocento simbolista, santi squisiti che però nascevano da una esigenza estetica, protodannunziana, con echi decadenti poco consoni ad una autentica religiosità. Da allora, la santità è un calice vuoto, nessuno pensa di abbeverarvi l’ispirazione. Se la mostra fosse stata sul rapporto tra arte e fede avremmo potuto ammirare qualcosa di Manzù, di Fazzini, di Rouault o il famoso crocifisso di Dalì: però nessuno di questi artisti, o degli altri che potrebbero dire la loro, ha trattato il tema del santo e della sua incidenza nelle faccende del mondo. Oserei dire che l’arte moderna rifugge dal concetto stesso della santità, sente anzi l’ipotesi di epifania - l’apparizione - del santo come disturbante e inconciliabile con la manifestazione artistica e il suo linguaggio. E’ effetto della laicizzazione di una società che non riserva alcun posto o funzione per questa figura, se non in un devozionismo populista inadeguato ad esprimere un paradigma universale, quale fu indubbiamente l’opera di un San Francesco o di un San Luigi.
 
Per finirla sorridendo: è qui esposta una tavola del cd. Maestro del Tirolo meridionale, una scena di miracolo dinanzi alla tomba di Sant’Antonio. Si vede una fanciulla dalla cui bocca spalancata fuggono diavoletti neri come scorpioni. E’ Sofia, leggendaria figlia dell’Imperatore Costantino, ritratto dietro di lei. Dall’altra parte della tomba, due storpi sono in attesa, anche loro, dell’intervento risanatore del santo. Il miracolo gratifica solo l’aristocratica ragazza. E’ una indemoniata, succube del demonio: una donna, insomma… Il femminismo non era ancora arrivato.

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