Salviamo la politica dai contabili

Correva l'anno 1975. Un anno difficile, un anno di crisi economica: aumentano gli operai in cassa integrazione, chiudono migliaia di aziende, cresce vertiginosamente il numero degli assegni protestati. I giornali puntano la Casta. Si contano le auto blu: ai 20 ministeri del governo Moro ne vengono attribuite 3475. Il vicepresidente del Consiglio, Ugo La Malfa, con un articolo sulla 'Voce repubblicana' denuncia le spese della politica.
Segue polemica. Ficcante uno degli argomenti che sceglie di usare: è mai possibile che una dattilografa di Montecitorio guadagni più di un deputato? L'allora presidente della Camera, Sandro Pertini, reagisce stizzito (Pertini era uno che si stizziva molto). «Non ci ho dormito la notte...», dirà per banalizzare il problema. In seguito si renderà conto che un problema c'era. Accadeva dunque quasi quarant'anni fa quel che accade oggi.
Né più, né meno. È ancora fresco l'inchiostro dell'articolo di Gian Antonio Stella dal titolo «Lo stenografo del Senato come il re di Spagna. Busta paga da 290 mila euro». Confidava la scorsa settimana uno sconsolato Altero Matteoli, l'ex ministro del Pdl: «I giornali ci stanno massacrando, ma non è giusto. Sugli stipendi non è giusto. Sai quante decine di nomine di gente che guadagnava due, tre, quattro, cinque volte quello che guadagnavo io da ministro ho firmato negli ultimi anni?». A voler strappare l'applauso, la ricetta è semplice: basta dire che Matteoli è uno sfrontato, che il Paese soffre, che i politici sono tutti ladri, che dovrebbero guadagnare quanto un metalmeccanico perché, come dice chi non ci crede, «la politica è servizio». Lasciamo volentieri che ad essere applauditi siano altri.
È vero: molti parlamentari «rubano», molti non sono all'altezza, molti non si rendono conto di quel che accade tra la gente 'normale'. Ma ciò non toglie che la polemica sugli stipendi sia sterile e in fondo controproducente. Lo è anche la pretesa di valutare la qualità degli eletti in base al numero di proposte di legge presentate, e simili amenità. Svetta Gabriella Carlucci, oppure... Salviamo la politica dal giudizio dei ragionieri. E diciamo che se vogliamo evitare che il Parlamento sia l'ultima spiaggia di chi ha fallito altrove, visto che lo status di parlamentare ormai vale poco almeno lo stipendio dev'essere più che dignitoso. Giusto ridimensionare, e molto, i vitalizi. Giusto ridurre, e molto, il numero degli eletti. Giusto sottrarre alla libera scelta del singolo parlamentare la disponibilità dei soldi teoricamente destinati ai suoi collaboratori. Giusto introdurre l'anagrafe pubblica degli eletti come chiedono i radicali. Giusto ridimensionare gli stipendi di quei dipendenti pubblici (dattilografe della Camera comprese) favoriti dallo stretto contatto con i politici. Ma la verità è che se un parlamentare è onesto e fa davvero politica sul territorio, i soldi che guadagna finisce per spenderli tutti. Sono i costi della democrazia. Altro discorso sono invece i costi della politica. Sono queste le spese che vanno contestate senza tregua ai politici. L'elefantiasi di ogni istituzione, ministero, dipartimento o ente pubblico frutto esclusivo di un inesauribile clientelismo. Il proliferare di enti, autorità, commissioni e organismi la cui unica ragion d'essere è quella di moltiplicare occasioni di spesa e di nomina. La resistenza ad ogni vera liberalizzazione, perché dove c'è il mercato si riducono i margini d'azione della politica politicante.
Mettere a dieta lo Stato, ridurre e razionalizzare la spesa pubblica: è questo che va fatto con urgenza. Ed è su questo che bisogna incalzare senza requie i politici. Quella sugli stipendi dei parlamentari è polemica da ragionieri, roba da invidiosi. Poi, certo, alcuni hanno brutte storie e bruttissime facce. Prima di manar scandalo, però, proviamo a guardare con spirito critico le nostre facce allo specchio. Scopriremo, con raccapriccio, che assomigliamo a loro.
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