Salvate il soldato Aziz

Il governo iracheno ha dichiarato che rispetterà le leggi, ed è già un bel risultato. Quello iraniano, infatti, non ha promesso niente. Dei tanti condannati in attesa di esecuzione nel mondo, ce ne sono due che sono saliti all’onore delle cronache e che anche le autorità italiane si sono prese a cuore: Tarek Aziz e Sakineh Ashtiani. Il primo, ex vice di Saddam Hussein, è stato condannato a morte in primo grado per il suo coinvolgimento nella "liquidazione dei partiti religiosi, la seconda era destinata alla lapidazione per adulterio prima, per omicidio poi. Le loro foto da qualche giorno campeggiano su piazza del Campidoglio a Roma, accanto a quella di Gilad Shalit, il soldato israeliano dal 2006 in mano ai palestinesi. Il governo italiano, infatti, dichiara di voler lottare contro la pena di morte e il ministro degli Esteri Frattini ha annunciato che «prossimamente» volerà a Baghdad per «favorire una soluzione alla vicenda», tanto che «la parte irachena ha preso nota delle particolari sensibilità italiane al riguardo». Il linguaggio della diplomazia è sempre stato vago ma l’approssimazione qui tocca l’apice. «È anche per questo che Marco Pannella è in sciopero della fame da più di un mese», spiega Sergio D’Elia di Nessuno Tocchi Caino. «Il governo non chiarisce quali saranno le prossime mosse e quando verranno attuate. Come al solito ai canali ufficiali si sono dovuti sostituire quelli attivati da movimenti e reti transnazionali. Fortunatamente abbiamo avuto rassicurazioni da Baghdad che i tempi procedurali previsti dalla legge verranno rispettati».
Questo significa che è stato accolto il ricorso in appello e che il tribunale prenderà in esame il caso di Tareq Aziz per un giudizio di secondo grado, che non arriverà prima di qualche mese. «Il tempo per agire c’è», continua D’Elia, «a meno che il governo di al Maliki, che purtroppo non è più democratico del regime che l’ha preceduto, non decida di infrangere regole e promesse e giustiziare comunque Aziz, magari proprio nell’anniversario dell’uccisione di Saddam, il 30 dicembre». Con i regimi autoritari, infatti, non c’è mai da fidarsi. Non che gli Stati Uniti stiano ad ascoltare gli appelli contro la pena di morte, reiterati questa settimana da Svizzera, Francia e Gran Bretagna in seno al Consiglio Onu per i diritti umani, ma se oltre Atlantico le esecuzioni diminuiscono, nelle dittature africane e asiatiche i condannati a morte continuano a essere migliaia. Tra i quattro Paesi che ne giustiziano di più, oltre a Repubblica Popolare Cinese e Arabia Saudita, ci sono proprio l’Iraq di Aziz e l’Iran di Sakineh. Quest’ultimo non solo non ha fornito alcuna garanzia sul riesame del processo alla presunta adultera, ma ha incarcerato anche il figlio Sajjad Ghaderzadeh e l’avvocato Javid Hutan, senza contare il numero di attivisti per i diritti umani che vengono imprigionati ogni giorno, come Nasrim Sotoudeh, in sciopero della fame dal 31 ottobre e della sete dal 3 novembre. Eppure il ministro alle Pari opportunità Mara Carfagna si dice «fiduciosa di poter trovare ascolto presso le autorità di un Paese come l’Iran che l’Italia rispetta in quanto Stato sovrano e con il quale intende intrattenere un rapporto di dialogo costruttivo». Per ora, a mantenere i contatti tra Sakineh e il resto del mondo, in Iran e all’estero, resta solo la figlia diciassettenne. «Non ci sono più giuristi disposti ad affrontare il rischio di difenderla», ci spiega Bruno Malattia, avvocato che ha raccolto l’appello del Comitato internazionale contro la lapidazione e ha deciso di aiutare legalmente la donna. «Dieci giorni fa il Comitato - composto da iraniani che sono fuggiti dal regime - si è riunito a Pordenone e abbiamo deciso insieme di acquisire gli atti del tribunale che ha processato Sakineh per poter ribattere punto per punto l’operato della Corte. Attualmente abbiamo i documenti in lingua farsi e li stiamo traducendo in italiano». Ma qualcosa, l’avvocato Malattia, l’ha già fatto: ha inviato una lettera al Parlamento europeo per chiedere di fornire tutela ai legali iraniani in modo da garantire una difesa alla condannata: «Se l’Europa non si muove chi combatte per i diritti umani resta solo. E pensare che a Teheran ci sono avvocati che sarebbero disposti, con un minimo di sostegno, ad assumere l’incarico: sono in maggioranza donne, le più inclini a combattere in prima linea».
Purtroppo, però, affidarsi alla Ue non sembra portare frutti: «L’Europa non esiste», sostiene D’Elia, «non c’è nessuna entità in grado di esprimere una voce comune e a imporsi su un tema come questo. L’unica speranza viene dalla moratoria Onu della pena di morte, che negli anni passati ha già portato qualche miglioramento». Proclamata dall’Assemblea delle Nazioni unite nel 2007 e nel 2008, la moratoria è in esame anche quest’anno e a dicembre il Palazzo di vetro deciderà se rinnovarla. Non si tratta di una risoluzione del Consiglio di sicurezza e non vincola gli Stati nello stesso modo ma senz’altro serve a disincentivare le esecuzioni: «Il numero di giustiziati nella Repubblica Popolare Cinese è diminuito», prosegue D’Elia, «il Pakisan è passato da 100 esecuzioni all’anno a nessuna, molti Paesi africani hanno abolito la pena di morte e altri hanno intrapreso il cammino legislativo per farlo. Anche negli Usa c’è stata una svolta epocale: due Stati come il New Jersey e il New Mexico l’hanno archiviata per sempre». Le campagne per salvare Tareq Aziz e Sakineh Ashtiani cercano di colpire due Paesi che, invece, non hanno registrato alcun progresso: l’Iraq di al Maliki ha conservato la pena capitale introdotta da Saddam e l’Iran di Ahmadinejad uccide anche 50 condannati al mese, lo ha fatto proprio questo ottobre, mentre il mondo si mobilitava contro la lapidazione. Da quando Teheran ha ipotizzato di uccidere Sakineh per impiccagione - annunciandole persino che sarebbe stata giustiziata all’indomani, prima di bloccare l’ennesimo tentativo di eliminarla - la campagna per la sua salvezza si è indebolita. All’inizio era stata la prospettiva di una lapidazione che aveva commosso l’opinione pubblica, adesso c’è rischio che il caso non sollevi più la stessa attenzione. La battaglia contro la pena di morte non può seguire gli umori di un pubblico scostante, deve conquistare i palazzi del potere e seguire la strada dell’abolizione.
© 2010 Left Avvenimenti settimanale dell'Altritalia. Tutti i diritti riservati
SEGUICI
SU
FACEBOOK
SU