«Sakineh sarà impiccata»

Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna iraniana condanna alla pena capitale per adulterio e per complicità nell'uccisione del marito, non morirà per lapidazione ma per impiccagione. E questo avverrà con ogni probabilità quando l'attenzione dei media sul suo caso si attenuerà e quando la mobilitazione internazionale segnerà il passo.
Ieri il procuratore generale di Teheran, Gholamhossein Mohseni-Ejei, smentendo lo stesso presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, che in una intervista alla tv americana "Abc" aveva negato che esistesse una sentenza di lapidazione per Sakineh, non solo ha confermato che c'è una sentenza di condanna a morte per lapidazione, ma che ne esiste un'altra, per impiccagione, per complicità nell'uccisione del marito. E quest'ultima ha la precedenza sulla prima. Poche ore dopo Mohseni-Ejei è stato a sua volta smentito dal portavoce del ministero degli Esteri iraniano, secondo cui il procedimento nei confronti di Sakineh è ancora in corso. Non vi sono, dunque, certezze, non c'è chiarezza sulla sorte della donna, tanto più che in Iran la condanna a morte la deve comminare la Corte Suprema e, a quanto pare, l'iter giudiziario non è ancora arrivato a quel livello.
È evidente che ci si trova davanti a un gioco al massacro fatto sulla pelle di Sakineh, una donna di 43 anni che nel terzo millennio è ancora vittima di leggi barbare e tribali, rinchiusa in carcere da quattro anni, torturata, senza che le sia concesso di vedere i suoi figli o il suo avvocato, il cui destino è quasi certamente segnato. Un gioco al massacro finalizzato a confondere le acque, a mischiare le carte in tavola per ingenerare disorientamento nell'opinione pubblica, con una tecnica cinica e spregiudicata, in attesa che sulla vicenda cali il silenzio per poi lasciare mano libera al boia. Un gioco al massacro che si intreccia con una lotta di potere fra il presidente Ahmadinejad e il clero ultra-conservatore fedele alla Guida Suprema, l'ayatollah Khamenei. Ed è per questo che i figli di Sakineh (anche grazie a loro la vicenda è uscita dai confini dell'Iran) fanno di tutto per mantenere viva l'attenzione sulla caso della madre.
Ieri il maggiore dei due, Sajjad Ghaderzadeh, si è detto sicuro che le autorità iraniane annunceranno ufficialmente la condanna a morte di Sakineh fra due settimane e ha rivolto un appello al nostro Paese. «Chiediamo all'Italia di intervenire per salvare mia madre», ha detto all'agenzia Aki-AdnKronos. «Auspichiamo fortemente che la condanna a morte nei confronti di Sakineh possa essere rivista. Il governo continuerà ad adoperarsi con la massima determinazione», ha risposto la Farnesina. Un appello per la vita di Sakineh è stato lanciato anche dal presidente dei "Musulmani Moderati in Italia", Gamal Bouchaib. Per rendersi conto di come le speranze di salvare la vita di Sakineh siano decisamente esigue, basta sfogliare le pagine dell'ultimo rapporto sulla pena di morte nel mondo di "Nessuno tocchi Caino".
L'Iran è al secondo posto nella classifica degli stati-boia con 402 condanne a morte eseguite nel 2009. Lo precede solo la Cina con almeno 5000. Lo seguono Iraq (77), Arabia Saudita (69) e Stati Uniti (52). «L'impiccagione in Iran si legge - avviene tramite gru o piattaforme più basse per assicurare una morte più lenta e dolorosa. L'impiccagione è spesso combinata a pene supplementari quali la fustigazione e l'amputazione degli arti». Negli Stati Uniti il boia non è comunque da meno che in Iran. Domenica scorsa a Jackson, in Georgia, è stato ucciso con una iniezione letale un uomo di 31 anni, Brandom Joseph Rhode, che 1 settimana fa aveva tentato di suicidarsi in cella tagliandosi la gola con una lametta. Brandom era stato condannato a morte nel 2000 per tre omicidi. Al boia sono serviti 30 minuti di prove prima di trovare le vene dove iniettare il cocktail mortale che ha impiegato 14 lunghi minuti prima di fare effetto.
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