Rottamatori e agitatori

Dalla Rassegna stampa

Lo psicodramma democratico delle primarie ha raggiunto l’acme, ma non la fine, con l’uscita di scena di D’Alema e Veltroni. Come in un romanzo popolare, ci sono tutti gli ingredienti che appassionano il grande pubblico: amicizia e odio, dolori e vendette, i figli che si ribellano ai padri, i tradimenti, le scenate di gelosia. È infatti uno show politico di grande successo: sarà un caso ma, da quando è cominciato, il Pd è perfino cresciuto nei sondaggi.
Si conferma il carattere dirompente che può avere la sfida delle primarie, se vere e aperte: del resto la democrazia è stata inventata proprio per cambiare periodicamente le classi dirigenti senza spargimenti di sangue. Ma chi l’avrebbe mai detto che a mandare in pensione i due eredi del comunismo berlingueriano sarebbe stato un ragazzino democristiano? Per quanto a entrambi vada reso l’onore delle armi, è infatti evidente che nessuno dei due si sarebbe fatto da parte se non ci fosse stato il ciclone Renzi. Il quale, a sua volta, non ci sarebbe mai stato se insieme con Berlusconi non fosse caduto il Muro della Seconda Repubblica, rendendo obsoleti tutti i suoi protagonisti, vincitori e vinti.
È dunque un fatto a suo modo storico ciò che sta accadendo nel Pd. Se ne uscirà un partito migliore, più attrezzato per il governo del Paese, è ancora presto per dirlo. Paradossalmente proprio il successo ottenuto può ora togliere a Renzi la sua arma migliore, secondo molti l’unica. Certo, restano altri mattoncini di quel Muro da buttar giù ma, con tutto il rispetto per Bindi o Finocchiaro, la loro sorte non è così politicamente rilevante. Il giochino della «deroga» è ormai segnato: chi la vuole non la chiede, chi la chiede non l’avrà. Cosa resta dunque a Renzi ora che Bersani, con mossa astuta, è saltato in groppa allo stesso cavallo, impugnando lo stesso articolo dello statuto che fissa il limite dei tre mandati e accompagnando alla porta finanche il suo mentore politico?
Non è un caso che il sindaco di Firenze, un attimo dopo il ritiro di D’Alema, abbia precipitosamente iniziato a rottamare la rottamazione, spiegando che è stato un espediente, anche un po’ «volgare», per conquistare credibilità, ma che ora basta, bisogna chiuderla lì e passare al confronto sui contenuti. Se questo avvenisse sarebbe certamente un bene, perché ciò che gli elettori meritano di sapere è dove i due intendano portare l’Italia, visto che sembrano entrambi credere, come ha detto di recente Renzi, che «l’incendio è finito » ed è ora dunque di disfarsi del «pompiere» Monti, per passare la mano a non meglio identificati «architetti».
Ma l’effetto della scossa che sta cambiando la faccia del Pd è destinato a riverberarsi su tutta la politica italiana, a cominciare dal Pdl. Anche in quel partito, infatti, infuria la lotta; ma essa non ha ancora trovato un canale come le primarie con il quale trasformare il calore della battaglia interna in carburante politico, e rischia dunque di implodere.
Prova ne sia che i rottamatori, e più ancora le rottamatrici, esistono anche nel Pdl, ma curiosamente si battono non per promuovere homines novi, bensì per resuscitare la leadership di Berlusconi, che sarà anche meno antica delle carriere parlamentari degli oligarchi democratici ma non è certo meno datata. Difficilmente lo «spirito del ’94», continuamente evocato come in una seduta spiritica, potrà risolvere i problemi del 2013. Mentre invece può eliminare, ad uno ad uno, tutti i potenziali eredi del berlusconismo. Invece del «parricidio» cui stiamo assistendo tra i democratici, un gigantesco «fratricidio». Del resto, come nel Ritratto di Dorian Gray, la lacerazione avvenuta nel Pd ha fatto d’improvviso invecchiare le facce di tanti altri politici della Seconda Repubblica. Sarà davvero difficile in campagna elettorale ascoltare ancora un Tremonti, o un Fini, o un Casini senza pensare a D’Alema e a Veltroni, e senza chiedersi dov’è la differenza.

 

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