Romani conquista lo Sviluppo. Al Colle giuramento nel gelo

Dalla Rassegna stampa

Il lungo interim che doveva essere breve si è concluso in un lampo. È durata solo il tempo indispensabile la cerimonia al Quirinale per il giuramento di Paolo Romani, nuovo ministro dello Sviluppo economico, già viceministro alle Comunicazioni, ma da sempre fedelissimo di Berlusconi che ci ha dovuto impiegare cinque mesi per assegnargli la poltrona che, fosse stato per lui, gli avrebbe consegnato molto più rapidamente, certo con quella scelta di non sbagliare e di avere un punto di riferimento, per così dire, sicuro. Solo che la proposta di nominare Romani al dicastero di Via Veneto aveva suscitato più che un dubbio, anche nel presidente della Repubblica poiché non appariva quanto il possibile nuovo ministro fosse ancora coinvolto in iniziative editoriali. Chiarite le questioni tecniche con l'Antitrust sono rimaste tutte in piedi le questioni di opportunità politica. Che non sono state tenute in alcun conto dal presidente del Consiglio che, alla fine, dopo aver usato il ministero come merce di scambio, è ritornato come nel gioco dell'oca alla casella iniziale ed ha promosso uno dei suoi amici, che di questi tempi è meglio tenerseli buoni e, magari, anche condizionati dalla gratitudine.
«BUON LAVORO» La cerimonia nella sala della Pendola è stata, date le premesse, formale e rapida. Silvio Berlusconi è arrivato al Colle con Gianni Letta per accompagnare Paolo Romani. Il gruppetto ha aspettato per qualche minuto il Capo dello Stato, per tradizione puntuale, giusto il tempo necessario per consentire al premier di buttarla in caciara e minacciare i presenti del racconto di una barzelletta stoppata dall'alt di un Letta più che mai controllore. L'arrivo di Napolitano ha dato il via alla lettura della formula del giuramento e tutto si è concluso. Un paio di minuti, non di più. Nessun applauso, nessun compiacimento, niente brindisi. Tempi contingentati e nessun colloquio a margine tra il presidente e il premier. Una stretta di mano accompagnata da un «buon lavoro» e il presidente se n'è tornato nel suo studio dopo la cerimonia ridotta all'essenziale e che ha trasmesso, quasi fisicamente, il gelo e la tensione che hanno caratterizzato una decisione più volte sollecitata ma che non ha tenuto in alcun conto i dubbi e le perplessità che pure non erano state nascoste.
Resta forte la tensione tra il Quirinale e Palazzo Chigi. Non serve certo ad attenuarla il fatto che ogni raccomandazione, indicazione, riflessione è stata fin qui ogni volta disattesa. Che bisogno c'era di aspettare cinque mesi per poi confermare una scelta già fatta? E il più volte sollecitato impegno ad un rapporto di collaborazione tra le istituzioni dove è andato a finire quando non si propone una riforma organica, è il caso della giustizia, ma piuttosto una commissione d'inchiesta? Ed ancora l'attacco costante alle istituzioni di garanzia può essere dimenticato davanti a dichiarazioni che tali restano e non hanno conseguenze nel comportamento di governo? Questo il clima. Gelido. Destinato a non sciogliersi almeno per il momento e condizionato certo da un cambio di passo che per ora Berlusconi mostra di non voler innescare, quasi dimentico che poi è proprio al Colle che dovrà tornare qualora dovesse venire sancita da un voto parlamentare la crisi del suo governo che è ormai sotto gli occhi di tutti anche se lui si vanta di una maggioranza a prova di voto. Dovrà andare al Quirinale dove c'è un Napolitano che non ha mai gradito gli attacchi che sono stati rivolti a lui e ai sui predecessori ricordando con note ufficiali che dalla presidenza non c'erano mai state «interferenze improprie» sulle decisioni di alcun governo (1 aprile 2008); esprimendo «profondo rammarico e preoccupazione» per gli attacchi in sede internazionale alle istituzioni di garanzia (10 dicembre 2009); sfidando chi si permetteva di accusarlo di "tradire la Costituzione" a utilizzare l'articolo 90 della Costituzione, quello sulla messa in stato d'accusa del Presidente (16 agosto 2010). Ora, comunque, il ministro c'è. E dovrà misurarsi con le richieste di imprese e sindacati che stanno trovando «convergenze chiare e interessanti». Parola di Emma Marcegaglia.

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