Risorgimento e sultanato al femminile

Dalla Rassegna stampa

L’amica Beatrice Rangoni Machiavelli, rappresentante italiana nell’Internazionale liberale e quotidiana lettrice di Europa, ci manda, per i 150 anni dell’unità nazionale, copia della sentenza che trent’anni prima dell’unità (1831) fu emessa, in nome di Francesco IV duca di Modena e Reggio, a carico di Rosa Rangoni, suddita estense e antenata della nostra lettrice. La signora fu condannata a 3 anni di reclusione, perché: «Rea confessa di aver cucito, di commissione del capo ribelle Ciro Menotti, una bandiera di seta di colore bianco-rossoverde, con scienza che la medesima servir dovesse alla rivolta».
 
 Sul Risorgimento al femminile sono stati scritti capitoli, se non libri, e non è intenzione nostra aggiungerne altri, per mancanza di mezzi culturali. Ma, se qualcuno ne avesse, non sarebbe male che li scrivesse, visto che 150 anni d’unità e grandi personaggi femminili, da Montessori a Serao a Deledda a Levi Montalcini, e sessant’anni di diritto di voto attivo e passivo e cattedre e lauree per metà di studentesse, non sono riusciti a evitare che l’immagine del mondo femminile italiano emergesse più coi tratti di Mignottocrazia (il libro di Guzzanti), che per l’alta responsabilità e qualificazione richiamata dal convegno Bonino-Camusso-Marcegaglia-Finocchiaro-Lanzillotta-Todini, passato quasi sotto silenzio dalla stampa maschile e femminile. Si vede che il titolo del convegno, "Questione femminile-questione Italia", richiama un problema totalmente aperto, inducendo a sorridere della convinzione leopardesca (Per le Nozze della sorella Paolina) «Donne, da voi non poco la patria aspetta». Non è vero niente, non aspetta niente da nessuno, perché non c’è nessuna patria ad aspettare, ma solo lenoni e prosseneti. Ci fu un abbozzo di patria, appunto patria-stato-nazione del Risorgimento, poi fiaccata da eventi tristissimi, scomuniche, miseria, divisioni, guerre, disfatte, fino al peggiore di tutti: la dissoluzione morale, da Tangentopoli a Mignottocrazia.
 
 Il cardinal Bagnasco, che ha lanciato un solido programma culturale e politico di riconquista dell’Italia da parte della Chiesa, ha colto «le radici culturali del disastro antropologico che ci minaccia», come ha scritto Ida Dominijanni sul manifesto: bacchettando «una rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo basato sull’artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé». Ma il cardinale, o i suoi monsignori, farebbero bene a cacciare in bocca queste parole non solo al sultano, ma anche alle sue "cattoliche" deputate, sottosegretarie, ministre, piccole o grandi odalische il cui nome «sarà bello tacere» (Gozzano).

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