Le riserve del Colle dopo 5 mesi di attesa

L'unico che dimostra autentico buonumore è Silvio Berlusconi. Prima scherza con un operatore tu sul «rischio scoliosi» del portare la telecamera in spalla. Poi, dopo essersi guardato intorno per conquistarsi l'attenzione, promette una barzelletta del suo ricco repertorio. «Ora vi racconto una storiella», dice ai cronisti assiepati nella Sala della Pendola al Quirinale e che, in attesa del capo dello Stato, impugnano subito i taccuini. Gianni Letta, come in uno sperimentato gioco a due, lo blocca con un «alt», cui il premier replica sospirando: «Ecco cosa succede quando uno non ha niente da fare nella vita». Risata generale, che di colpo si spegne all'arrivo di Napolitano.
Il quale interrompe il siparietto e rassicura tutti: «Non sono cerimonie lunghe». È proprio vero: in pochi minuti, e senza entusiasmi, si apre e si chiude l'incontro che mette la parola fine alla prova di forza sul dopo-Scajola allo Sviluppo economico. Non c'è stato bisogno di grandi discorsi, stavolta. Il presidente della Repubblica si è limitato a una presa d'atto, risolutiva. Palazzo Chigi gli ha confermato che il viceministro Paolo Romani, indicato dal Cavaliere a succedergli nell'incarico che già aveva assunto su di sé ad interim il 4 maggio scorso, ha offerto le assicurazioni formali previste dalla legge sul conflitto d'interessi. Una sorta di autocertificazione, insomma, davanti all'Antitrust e sotto la sua personale responsabilità. A questo punto, non potendo più sollevare obiezioni sulla nomina, Giorgio Napolitano ha detto ai propri funzionari che non c'era bisogno di preparare il suo studio per un incontro riservato e di attrezzare invece sala e tavolo per la formula del giuramento. Sbrigato in fretta, con i rituali «complimenti e auguri» a Romani, e nient'altro. Neppure uno scambio di battute in privato.
Una partita trascinatasi per più di cinque mesi (un tempo «insopportabilmente lungo», secondo la polemica definizione che ne avevano dato all'unisono la Confindustria, i sindacati e le opposizioni), attraverso una girandola di candidature e negoziati dentro la maggioranza. Partita che si è chiusa sul nome che il premier aveva proposto fin dall'inizio - ma informalmente - al presidente della Repubblica. Incassando «dubbi» e «perplessità» e la richiesta di un «supplemento di riflessione».
Il problema, per il Colle, era che l'uomo da promuovere ministro, legatissimo a Berlusconi, aveva un passato da editore televisivo e tale continuava a qualificarsi nel curriculum pubblicato sul sito del governo. Di qui l'ipotesi, se non di incompatibilità vera e propria com'era stato ventilato allora, almeno di «inopportunità». Alla quale lo stesso Romani aveva replicato a fine luglio recriminando su un doppio «malinteso»: 1) non era più editore da parecchi anni e tutte le sue partecipazioni nel mondo delle tv commerciali erano state vendute; 2) che non esistesse alcun conflitto d'interessi era provato dal fatto che, vestendo già i panni di viceministro con delega alle comunicazioni, nessuno aveva contestato quell'incarico (in caso contrario, si obiettava, l'incompatibilità sarebbe scattata «per tabulas»).
L'intoppo, dunque, più che tecnico sarebbe stato politico e comunque interno alla maggioranza (legato, in qualche modo, allo «strappo di Fini»). Ecco la tesi sulla quale si è arroccato il governo. Napolitano, in un momento così incerto e difficile perla vita della legislatura, deve aver pensato che non fosse il caso di . aggiungere nuovi motivi di tensione, insistendo con le proprie riserve. C'è la guerra sulla giustizia, rinfocolata domenica da Berlusconi, sulla quale intervenire. Ma a freddo, e nelle sedi istituzionali appropriate.
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