Riportate a casa le ragazze

Tutto è cominciato nel pomeriggio del 23 aprile, una settimana dopo il rapimento delle 276 ragazze dal dormitorio di una scuola nel nord est della Nigeria. All’1.49 da una città del Sud è partito il primo tweet con l’hashtag «BringBackOurGirls» («riportate a casa le nostre ragazze»). L’autore è un avvocato nigeriano, tale Ibrahim M. Abdullahi, ma l’ispiratrice è una donna: l’ex ministra dell’Istruzione Oby Ezekwesili che, nel suo intervento di inaugurazione alla cerimonia di Port Harcourt capitale mondiale del libro per l’Unesco, ha chiesto il rilascio delle ragazze rapite scandendo: «Bring back the girls!».
Certo non poteva immaginare che la sua invocazione nel giro di poche settimane sarebbe diventata la parola d’ordine «virale» di un movimento planetario che, con oltre i milione e 700 mila tweet, sta mettendo sotto pressione il governo nigeriano e ha convinto i «grandi» del mondo ad agire. Il picco, con 268.616 cinguettii, è stato registrato tra il 10 aprile e il 1° maggio con la notizia delle ragazze vendute in sposa e la «marcia del milione di donne».
Dalla rete alle piazze (da Abuja a New York) e ritorno: un pieno di rabbia e indignazione per il silenzio sul rapimento e l’inerzia delle autorità. Ora che il movimento è diventato globale, con il 44% dei cinguetti nell’ultima settimana proveniente dagli Usa (il doppio rispetto a quelli postati dalla Nigeria) e l’adesione di personalità da Michelle Obama a Malala, nel giorno della «social media march» (100 minuti su Twitter, Facebook, Instagram, Whatsapp) la domanda è sui limiti dell’«attivismo social»: può questo movimento globale essere davvero d’aiuto per riportare a casa le ragazze?
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