La riforma labirinto

Dalla Rassegna stampa

Ci voleva l’Ocse a riportarci coi piedi per terra e a capire quanto siamo lontani da un paese moderno

E non vale il detto mal comune mezzo gaudio: l’Italia è un’anomalia, e ha un numero di disoccupati fuori registro, soprattutto giovani e di lunga durata. La frattura del mercato del lavoro tra precari e tutelati ha prodotto guasti. Ma ora si aggira un nuovo dualismo tra mercato del lavoro reale e virtuale, che rischia di fare ancora più danni. L’esempio è la cosiddetta riforma del mercato del lavoro, che registra uno scarto tra i richiami dell’Ocse e la reale capacità di creare posti di lavoro. Approvata a fine giugno e ritoccata di nuovo con dieci emendamenti contrattati dalla maggioranza in modo bipartisan, la riforma ha avuto una gestazione di oltre cinque mesi, ma oggi viene criticata da tutti: partiti, sindacati, imprese, professioni. Ci vorrebbero la polizia scientifica o i carabinieri del Ris per fare la prova del dna e l’esame di paternità per capire di chi è figlia questa riforma: oggi sembra figlia di nessuno e nessuno, come è successo al piccolo Mario abbandonato alla clinica Mangiagalli, la vuole riconoscere assumendosene la paternità; né si vedono all’orizzonte domande di adozione. La riforma Fornero nel testo appena partorito e con le prossime integrazioni, nonostante i ripetuti sforzi del ministro del Lavoro, è lontana dalle premesse. Allora il ministro appena insediato parlava di ridurre le 47 formule contrattuali flessibili a favore di un contratto prevalente a tutele crescenti e di reddito minimo garantito. Il risultato è che le 47 formule sono rimaste tutte, anzi ne sono rimaste 46 (il contratto di inserimento è sparito), e molte sono state appesantite e ingessate. Sulla flessibilità in entrata sono aumentati i costi per collaboratori e partite Iva; sulla flessibilità in uscita la formulazione superblindata aumenterà il contenzioso; l’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego), un piccolo barlume di politiche attive del lavoro, viene ridotta ma rinviata al 2014; i nuovi servizi all’impiego pubblici e privati, il fulcro delle nuove politiche attive del lavoro, vengono rimandati a novembre con una nuova delega e chissà quando vedranno la luce. Nel frattempo l’Ocse ci ricorda l’aumento della disoccupazione. Mette malinconia la concomitanza dei richiami Ocse sull’introduzione di politiche attive, molto di rito e virtuali, quando afferma che l’Italia è sulla strada giusta, senza dire quanto sarà ancora lunga prima di diventare un paese moderno e civilizzato, con il contestuale orgoglioso annuncio dei dieci emendamenti alla riforma contrattati dai partiti: un topolino rispetto alla montagna di senza lavoro. Quello che abbiamo visto in questi mesi, dopo una riforma delle pensioni approvata in venti giorni e alla quale avrebbe dovuto immediatamente seguire la riforma del lavoro, è l’affievolirsi della spinta riformatrice del governo tecnico e il suo rivelarsi, nonostante i molti riconoscimenti internazionali, ostaggio di una vecchia politica che ci stava portando nel baratro. E la sua metafora è la riforma del lavoro, figlia dei partiti prima ancora che del Parlamento, frutto di compromessi al ribasso e di veti incrociati, anziché di un disegno riformatore. Il puzzle del lavoro si sta completando, ciascuno ha aggiunto tessere al mosaico, ma il disegno è confuso e ha prodotto un labirinto. Non sappiamo quando arriverà il decreto sviluppo, altro tassello mancante, ma l’aria che si respira è quella di una vecchia politica che vuole tornare padrona. Anche su questo si gioca il successo del governo dei tecnici: incidere nella realtà malata, anche con rischi di cure da cavallo e con strascichi di iniquità sociale, prima che la politica, che non ha né facce né idee nuove, riprenda il sopravvento. Sembra di rileggere Agatha Christie nei «Dieci piccoli indiani» o in «Assassinio sull’Orient Express»: molti sono i colpevoli del misfatto, ma nessuno si dichiara responsabile. Non paghi dei guasti arrecati in passato ciascuno ha voluto fare la voce grossa e marchiare l’ultima stesura della riforma, indifferente al risultato ma per raggiungere un obiettivo: esserci nel teatrino della politica mediatica e virtuale, non importa come, ed essere subito pronto a rimarcare la distanza e a sparare a zero sul prodotto che si è appena contribuito a partorire.
 

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