Riecco il boia: e il Giappone va indietro

La decisione del ministro della Giustizia giapponese, Toshio Ogawa, alto esponente del partito democratico nipponico, di far eseguire, dopo oltre un anno di moratoria rispetto alle norme giuridiche vigenti nel paese, tre condanne a morte per impiccagione, di altrettanti prigionieri, colpevoli di numerosi omicidi, compiuti tra il 1999 e il 2001, conferma il modo in cui il problema viene considerato nell'ordinamento e nella mentalità del paese. Ogawa sostiene che l'85% dei suoi concittadini è favorevole alle esecuzioni e afferma di giudicare un proprio dovere quello di firmarne gli ordini. Egli considera le discussioni avviate dagli abolizionisti contro l'esistenza di questa pena estrema contrarie alla mentalità giapponese.
Né si mostra propenso a riprendere in considerazione il modo duro e crudele in cui i condannati (in Giappone ve ne sono oggi 130, tutti nel braccio della morte in attesa che si compia il loro destino) vengono trattati prima dell'esecuzione. Infine argomenta la sua decisione in modo che si presta alla critica: "Non è giusto che il numero dei detenuti nel braccio della morte continui ad aumentare per il blocco delle esecuzioni". Quasi che questioni organizzative prevalgano su decisioni riguardanti la vita umana.
Con gli Stati Uniti d'America, il Giappone è l'unico paese modernizzato nel quale esista ancora la pena estrema. In altri paesi meno progrediti, dominano l'arbitrio e la ferocia. Si può essere lapidate per adulterio o essere messi a morte per blasfemia (Pakistan); per stregoneria (Arabia Saudita) e per altri reati che nel resto del mondo non avrebbero senso. Ma ciò non sorprende poiché queste parti del mondo sono anche quelle dove la guerra aperta o la guerra civile possono provocare migliaia di morti senza che nessuno riesca a reagire. In Siria, le vittime del regime di Assad sono, secondo l'Onu, circa 9000. Ma nel caso del Giappone (così come in quello degli altri paesi progrediti che mantengono la pena di morte - e sono sempre in minor numero) la questione si pone in modo diverso. Non vi è una guerra civile in atto; invece un sistema giuridico, una gerarchia suprema delle norme vigenti, che prevale su ogni valutazione riguardante la vita dell'uomo. Così la pena di morte diviene una sorta di vendetta della società contro l'individuo che viola le sue leggi. Essa presuppone dunque che, nella considerazione dei valori umani, il bene sociale prevalga, nei suoi concetti ma anche nei suoi preconcetti, sull'uomo, specialmente quando esso compie delitti giudicati efferati.
Il dibattito sulla validità di questa sequenza logica è antico poiché non riguarda solo l'esercizio del diritto scritto ma anche l'esercizio della consuetudine o del comune sentire. È un dibattito che viene tenuto aperto da organizzazioni come Amnesty International che si batte ovunque contro la violenza dell'uomo sull'uomo; o, in Italia, dal gruppo "Nessuno tocchi Caino". Il primato sul diritto alla vita e sulla illiceità del canone per cui un uomo o un sistema possano privarne un altro uomo è dunque sempre aperto. In seno alle Nazioni Unite le delegazioni che hanno accettato di sottoscrivere una proposta di moratoria sono state 140, su un totale di quasi duecento. Altri accettano di fatto la rinuncia alla pena capitale; ma una ventina di Stati rimane ostile a una modifica così importante. Vi sono paesi in cui la pena di morte viene erogata con facilità. La Cina non diffonde i dati che la riguardano, ma secondo Amnesty le condanne a morte sarebbero state migliaia. Negli Stati Uniti le sentenze eseguite nel 2011 sono state 43 (erano state 71 nel 2002). Ma il caso del Giappone è tale da richiedere una considerazione particolare. Nell'Impero del Sol Levante la tradizione dei cittadini di considerarsi molecole di un sistema complesso, che deve dominare sui singoli e al quale si deve sacrificare anche la vita, appartiene a tradizioni antiche. Durante la Seconda guerra mondiale si sono avuti molti esempi di questa concezione. Sicché si comprende come possa apparire necessario che lo Stato si arroghi il diritto di decidere della vita dei cittadini, cioè dei sudditi, soprattutto quando costoro hanno compiuto reati gravi. Che si tratti di una visione dalle radici arcaiche appare in Occidente ovvio. Ma si tratta di una visione non accettabile, soprattutto perché il Giappone appartiene alla élite dei paesi che governano il mondo.
© 2012 Il Mattino. Tutti i diritti riservati
SU