“Riaprite il caso di Chico Forti” - Usa, qualcosa si muove per il trentino condannato all’ergastolo in soli 24 giorni

Dalla Rassegna stampa

Qualcosa si sta muovendo. Con un post dell’8 giugno scorso sul suo profilo Twitter, il ministro degli Esteri Giulio Terzi apre uno spiraglio sulla vicenda di Enrico «Chico» Forti, l’imprenditore trentino da 12 anni rinchiuso in un carcere della Florida: «Prossima settimana riunione tra funzionari nostra Ambasciata a Washington e legali difesa per coordinare strategia».

E tre giorni prima: «Ogni possibile sostegno a Chico Forti. La Farnesina continua a essere vicina a lui e alla famiglia e appoggia le loro iniziative legali». Messaggi che lasciano ben sperare, che danno fiducia a parenti e sostenitori riguardo la riapertura di un procedimento che getta qualche dubbio sulla giustizia americana. Il 15 giugno 2000, dopo un processo di soli 24 giorni, Forti venne infatti ritenuto colpevole dell’omicidio di Dale Pike sulla base di prove flebili e scarsi indizi. Non solo: tra le anomalie procedurali anche più violazioni dei diritti che portarono il trentino alla condanna all’ergastolo, tra cui gli interrogatori senza avvocato e, nell’inosservanza della convenzione di Vienna, il mancato avviso dell’arresto alle autorità consolari italiane.

La vicenda risale al 16 febbraio 1998 con il ritrovamento del cadavere denudato di Pike sul limitare di una spiaggia di Miami, poco distante da dove Forti - dopo averlo incontrato all’aeroporto - l’aveva lasciato la sera prima; vicino al corpo, i vestiti e gli effetti personali della vittima, tra cui una carta telefonica usata per chiamare Forti, con la quale Anthony Pike, padre di Dale, aveva fissato un incontro per la compravendita di un hotel. Ora, dopo anni di silenzio, qualcosa sembra muoversi. Già il 30 maggio scorso e grazie all’interessamento del senatore Marco Perduca, che ha promosso l’incontro, gli zii di Chico Forti sono stati ricevuti al ministero degli Esteri da Francesco Saverio Nisio, direttore centrale per i Servizi agli Italiani all’estero. Con loro anche il giudice Ferdinando Imposimato (l’avvocato italiano di Forti) e la dottoressa Roberta Bruzzone, redattrice di un report che evidenzia le anomalie investigative e procedurali adottate e che hanno impedito a Forti di dimostrare la sua innocenza, privandolo del diritto ad avere un giusto processo.

Dall’incontro in ministero sembra però sia emerso che le autorità italiane non possano intervenire in via diplomatica in mancanza del benestare per il riesame del caso da parte dei giudici americani. Finora non concesso. La vicenda di Forti è tuttavia sempre stata seguita fin dalle sue prime fasi dal ministero, dall’ambasciata d’Italia a Washington e dal consolato generale a Miami. In particolare durante il lungo iter processuale, il consolato ha fornito assistenza all’italiano, tra cui le visite volte anche ad accertarsi delle sue condizioni di salute, e mantenuto stretti contatti con i familiari ed i legali. Parallelamente, sia l’ambasciata che il consolato, sono rimasti costantemente in contatto con le autorità statunitensi a livello federale e locale, sensibilizzandole sulla vicenda. L’interesse sul caso continua quindi a rimanere alto e, dopo l’impegno e l’attenzione del governo italiano, si torna a chiedere la riapertura del processo.

 

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