La Rete è ambigua aiuta le rivolte ma può affossarle

Il colonnello Gheddafi spegne nel sangue il suo paese, fondato sul petrolio e non sui diritti. E lo fa anche oscurando i social network Facebook e Twitter. Pretende il buio mediatico per restare unico testimone di ciò che accade nel suo regno. Ma così insieme con la Rete brucia l'economia del petrolio. I1 nostro premier preferisce "non disturbare" l'amico colonnello, ma siamo espostissimi laggiù: il 40% del nostro fabbisogno petrolifero ci arriva da quei pozzi.
È proprio dalla Rete che è partita la scintilla che poi, con inaudita velocità, è divenuta rivolta (ma non ancora rivoluzione). I social network accendono le speranze democratiche di popoli oppressi da dittature pluridecennali, vedi il caso dell'Egitto, della Tunisia o dello Yemen. Cacciati i dittatori, le dittature militari cercano il controllo o addirittura il buio delle Rete. Il tam tam della rivolta ha colto di sorpresa persino la Cia. «Scusate, Facebook ne sapeva di più e prima di noi» è l'incredibile mea culpa che viene da Langley, quartier generale dell'intelligence americana. D'altra parte ci era già arrivato il grande sensore del cinema. Nel cinepanettone made in Usa «Ti presento i miei» l'agente segreto in pensione Bob De Niro telefona agli ex colleghi per avere un'informazione riservata e la risposta è fulminante: «Per saperne di più clicca su Wikipedia». Sta tutto in quella battuta.
In ogni caso, nel Nord Africa, la risposta delle autorità non si è fatta attendere. Ecco allora che i social network "inventano" la democrazia "prét-à-porter", ma il loro potentissimo strumento, Internet, rischia di cadere nelle mani di chi può spegnerlo, manipolarlo, utilizzarlo per dividere le grandi pulsioni popolari.
La prima ad avvertire questo rischio e a attenuare i forti entusiasmi dei giorni più caldi della rivolta di piazza Tahrir è stata Emma Bonino, profonda conoscitrice dell'Egitto dove ha vissuto: «Attenzione, se nella fase destruens la Rete si rivela uno strumento potente e insostituibile, presto si dovrà fare i conti con la fase costruens nella quale il potere si riappropria di questo mezzo e lo piega alle sue esigenze». Sulla fase destruens, bisogna dire che per la prima volta nella storia dell'uomo le testimonianze in diretta di ciò che andava accadendo e che va accadendo dalla Tunisia all'Egitto, dall'Algeria allo Yemen, fino alla Libia e al Barhein, hanno imposto prima alla Casa Bianca di Obama e poi, via via, agli altri governi occidentali di prendere atto di violenze insopportabili da parte di regimi indi fendibili.
Il potere mediatico, dal basso, dalla strada, ha aperto gli occhi a tutti e nessuno ha potuto sottrarsi a quell'evidenza. Così Mubarak, leale e fedele alleato per oltre trent'anni, è stato licenziato dagli Usa come una colf e ha dovuto togliersi di mezzo in ventiquattr'ore schiacciato dall'impatto planetario rappresentato dal volto sfigurato di Khaled Said, il giovane manifestante massacrato dalla polizia egiziana. Un piccolo, insignificante cellulare diveniva così testimone insopprimibile dell'orrore, di una realtà inaccettabile. E accaduto, come dice Carlo Jean, grande esperto di geopolitica, non un effetto domino, non un contagio dalla Tunisia all'Egitto fino alla Libia, ma «una imitazione dovuta alle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione».
Ma queste tecnologie sono, al di là del loro potenziale politico e culturale, un gigantesco business. Un settimanale, il National Enquirer, ha pubblicato, creando uno sconquasso senza precedenti nel mondo del Web, le foto di Steve Jobs, magrissimo e divorato dalla malattia, mentre si consegna al centro oncologico di Stanford. E subito un improvvido dottore mediatico pronuncia la diagnosi-sentenza: Jobs ha sei settimane di vita. Da quell'istante il Nasdaq, che misura le pulsazioni economiche del cuore tecnologico, subisce come un infarto e il titolo della Apple, della quale Jobs è guru assoluto e incontrastato, crolla producendo un disastro azionario. Ma è una foto che fa il giro del mondo a dare la scossa. Steve Jobs nella sua maglietta nera, magro sì ma vivo e vegeto, siede alla sinistra di Obama attorno a un tavolo che riunisce i potenti della Rete. Uno scatto simbolico, storico, che contiene un messaggio e racconta quanto economia e universo digitale siano oggi il verbo del futuro. La satira americana, con un pizzico di irriverenza, la vede così: «Finalmente si sono visti: l'uomo più importantedel mondo ha incontrato il presidente degli Stati Uniti». Quell'uomo ha ventisei anni, gira in t-shirt e ciabatte, si chiama Mark Zuckerberg ed è l'inventore di Facebook.
Come lo furono i cannoni contro chi vi opponeva solo il proprio petto, anche la Rete è un arma potentissima che sposta in un attimo non solo i messaggi ma la stessa economia del pianeta: bisogna capire dove quel cannone viene puntato, chi lo manovra, chi lo possiede o chi si impossessa dei suoi comandi e che cosa vuole difendere. Esemplare la posizione cinese: tutto l'Internet che volete se è nel segno del business, poco o niente se riguarda i diritti umani. La prova: nei giorni della rivolta di piazza Tahrir i caratteri che formano la parola Egitto sono stati cancellati dai motori di ricerca da una manina governativa dell'Impero della Grande muraglia.
Questi sono i giorni che l'esaltante esperienza della Rete universale sta vivendo: strumento di pace, di democrazia, di progresso, di libertà o strumento ostaggio di chi tutto questo non vuole? E il grandissimo dilemma che le attuali vicende che coinvolgono milioni di persone impongono a tutti come riflessione. Chissà cosa sta pensando il Colonnello che nel suo "Libro Verde" teorizzava che la democrazia è un bene troppo prezioso per essere delegato a libere elezioni. Possibile delegarla ai social network? Il trionfo della tecnologia è certo ma non è affatto sicuro chi potrà vantarsi di possederlo.
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