Regole del processo e cautele necessarie

Dalla Rassegna stampa

Hanno assunto degli investigatori privati, gli avvocati di Marcello Dell’Utri, per cercare contraddizioni nelle dichiarazioni del pentito Spatuzza e poterle contestare nell’interrogatorio previsto per oggi. È il segno di quanto sia importante questo passaggio per il processo d’appello al senatore del Popolo della libertà, già condannato in primo grado a nove anni di carcere per concorso in associazione mafiosa, e per quelli che in futuro potrebbero arrivare.

Gaspare Spatuzza— ex uomo d’onore della «famiglia» mafiosa del quartiere palermitano Brancaccio, fedelissimo dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano ergastolani (come Spatuzza) per le stragi del 1993 di Firenze, Roma e Milano — è chiamato a ripetere in aula quanto ha già detto ai pubblici ministeri sul conto del senatore-imputato e del suo capo politico, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Dichiarazioni ormai note, ma ora si vedrà come reggeranno alla verifica del controesame della difesa e delle domande dei giudici.

La corte d’appello, dopo averlo ascoltato, dovrà valutare la sua credibilità, poi deciderà se ascoltare anche altri testimoni. A cominciare dai fratelli Graviano, la «fonte» delle rivelazioni di Spatuzza, i quali negli interrogatori fatti finora agli inquirenti l’hanno smentito ma senza calcare la mano, sottolineando il rispetto nei confronti del loro ex amico e delle sue scelte. Terminati gli interrogatori, i giudici ascolteranno le conclusioni del pubblico ministero e le arringhe difensive, e sommando gli elementi portati dal neo-pentito agli altri raccolti e a quelli che hanno determinato la condanna di primo grado, emetteranno il loro verdetto su Marcello Dell’Utri.

Ma al di là della sentenza sul senatore siciliano — «il nostro compaesano» come lo chiamò Giuseppe Graviano, secondo il racconto di Spatuzza, spiegando che con lui e Berlusconi la mafia aveva chiuso un accordo politico tra il ’93 e il ’94, mettendosi «il Paese nelle mani» — ci sarà il seguito delle indagini riaperte con le dichiarazioni dell’ex picciotto di Brancaccio. A Caltanissetta, sulla strage di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino; a Firenze sulle bombe esplose in continente, dove l’indagine coinvolge direttamente Berlusconi e Dell’Utri; a Palermo, sulla presunta trattativa tra Stato e mafia al tempo delle stragi.
Il lavoro dei pubblici ministeri proseguirà dopo l’udienza di oggi alla ricerca di riscontri, così come si deve fare di fronte alle dichiarazioni dei pentiti. Che sono stati l’arma con cui lo Stato ha sconfitto il terrorismo negli «anni di piombo» e piegato Cosa Nostra, col maxi-processo e dopo gli attentati del ’92-’93. Confessioni, accuse, accertamenti e verifiche. Grazie a questo lavoro Riina e Provenzano sono in carcere seppelliti di ergastoli, insieme a centinaia di altri mafiosi.

Accade poi — ora come in passato — che quegli stessi collaboratori parlino dei rapporti della mafia con la politica, e anche in quei casi servono verifiche e riscontri. Inchieste e processi difficili, che non si possono non fare, sempre attenendosi alle regole e senza farsi coinvolgere né condizionare dalle inevitabili polemiche. Sia che si tratti di riaprire processi già definiti (come nel caso di Caltanissetta, dove le prime dichiarazioni di Spatuzza hanno suscitato perplessità e qualche frizione con la Procura di Palermo, all’inizio la più scettica sulla collaborazione dell’ex mafioso), che di tornare alle indagini su esecutori e mandanti che dieci anni fa non avevano dato risultati giudiziariamente apprezzabili, come nel caso di Firenze.

L’unico modo di procedere a fronte agli spunti offerti da un «volgare assassino» come Spatuzza (ma è difficile che i segreti di Cosa Nostra vengano svelati da gentiluomini) è indagare senza esaltarsi per una frase o un’opinione del collaboratore, che vale nulla se non riscontrata; e senza indignarsi per un’accusa apparentemente incredibile, giacché la realtà è fatta anche di cose apparentemente incredibili.
C’è un clima d’attesa, intorno alla prima deposizione pubblica del pentito Spatuzza, che assomiglia a quello della vigilia di un incontro di calcio di cartello, con un affollamento di giornalisti (anche stranieri) e telecamere degno di una finale di Coppa dei campioni. Ma un’aula di corte d’appello non è uno stadio, e il tifo da stadio non aiuta e non conviene né al processo in cui il nuovo pentito è chiamato a testimoniare, né alle inchieste scaturite dalle sue dichiarazioni.
 

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