Il referendum valdostano smonta il voto democratico

Dalla Rassegna stampa

E così, dopo 75 anni esatti, la cautela dei costituenti nell’inserire il referendum in Costituzione ci appare non solo legittima ma forse insufficiente. Domenica un referendum proposto da un comitato di cittadini valdostani, che si autodefiniscono “Valle virtuosa”, ha impugnato la decisione della giunta e del consiglio regionali di realizzare, «per non finire come a Napoli», un impianto di trattamento a caldo dei rifiuti: come quelli in funzione nel vero nord, Svezia, Germania, Norvegia. La discarica della Valle si esaurirà entro qualche anno, e non esistono piani alternativi a quello ora bocciato. È stato un referendum propositivo, forma rara nel genus referendarius, prevista dagli statuti valdostano, trentino e sudtirolese. Tutti gli altri statuti hanno soltanto il referendum abrogativo, e la Sicilia nemmeno quello. Ma il referendum propositivo di domenica ha funzionato come abrogativo, perché costringerà il consiglio a inserire nella legge regionale sui rifiuti il divieto di smaltimenti a caldo. Contro il «pirogassificatore » – dice il presidente della regione Augusto Rollandin – è stato fatto terrorismo fin nelle scuole elementari. Così, quegli stessi cittadini che avevano eletto un consiglio da sempre schierato per lo smaltimento a caldo (in aula 30 sì, 5 astenuti, nessun contrario), domenica hanno votato in 47 mila, sui 100 mila iscritti nelle liste (il quorum era 45 per cento), il divieto di ricorrere a queste moderne stregonerie, che nelle paure medievali alimentavano i saba di streghe e diavoli.
Ora il problema è: in una classica e moderna liberaldemocrazia, quale per Costituzione è la repubblica italiana, costruita sul sistema rappresentativo con integrazione di democrazia diretta, cosa succede se questa prevale sull’altro? Fino a ieri, il problema del rapporto tra referendum e sistema politico si era risolto in integrazione dell’uno nell’altro. I grandi referendum del primo decennio (1970-1980), protagonisti i radicali, e anche quelli elettorali del 1991-93, e perfino quelli recenti sulla procreazione assistita (caduto) e sull’acqua (approvato), funzionarono tutti come parte del sistema politico unitario. Riguardavano problemi nazionali e si esprimevano attraverso maggioranze nazionali. «Coi referendum regionali – dice a Europa Augusto Barbera, che con Carlo Fusaro pubblica dal Mulino il Manuale di diritto costituzionale, a trent’anni dal Manuale di diritto pubblico curato con Giuliano Amato – si sta affermando il principio distorto che tutte le scelte di governo debbano essere condivise dalla popolazione del luogo dove si ubicherà una centrale, una discarica, un termovalorizzatore, ecc. Ne conseguono, per effetto imitativo, la paralisi dell’economia nazionale e una degenerazione della democrazia, ridotta a faida di paese, a campanilismo ambientalista. E il legislatore sta fermo. Invece, su questioni locali d’interesse nazionale, l’esercizio della democrazia diretta dev’essere territorialmente esteso. Altrimenti si va alle estreme conseguenze di un federalismo che in Italia è inteso non come unificante ma come dissolvente dell’unità».
Sono le sciagure del Titolo V, di cui su Europa abbiamo chiesto il superamento da parte del Pd. Fra esse c’è il non riferimento all’interesse nazionale, conseguente alla perdita del concetto storico di federalismo: appunto, unificare i divisi, non dividere gli uniti. Ma il peggio è che nuovi referendum locali come quello della Val d’Aosta, si svolgono ora in un clima di jacquerie grillesca, che ha due canoni: la fine dei partiti e il superamento della democrazia rappresentativa, in favore della diretta. Così, da integrazione della liberaldemocrazia parlamentare, il referendum diventa il piede di porco del suo dissolvimento.
I costituenti non erano arrivati a temere questa ipotesi terminale, quando affrontarono con diffidenze e cautele il tema della doppia manifestazione, indiretta e diretta, di sovranità popolare. Il loro timore (oltre quello del plebiscito ad personam, che si concretizzò invece nella Francia di De Gaulle), era di un doppio circuito legislativo- decisionale: due circuiti opposti, e addirittura uno, quello “diretto”, sovrapposto a quello “rappresentativo”. S’è concretizzato domenica in Val d’Aosta. Il popolo sceglie di essere rappresentato da un partito, l’Union Valdôtaine, con un programma; poi va al referendum e vota contro quel programma che il partito cerca di realizzare. Perciò già all’indomani della Costituzione i giuristi parlarono di «difficile convivenza tra referendum e sistema rappresentativo »; ossia tra «potere abrogativo referendario e potere abrogativo del parlamento». Temi mai intercettati, nei decenni successivi, dalle tre Bicamerali istituite per la revisione istituzionale.
Il futuro governo Bersani, fra le sue prime cose, oltre al figlio di immigrati che nasce in Italia e all’anziano rottamato dallo stato prima che da Renzi, dovrebbe occuparsi di sminare il terreno delle istituzioni: giacché il piede sulla mina è nostro, dei cittadini, posti dalla confusione normativa alla mercé degli avventurieri. Non possiamo procedere più con referendum di cortile, che per contagio fanno il senso comune del paese. Il referendum valdostano non ha detto cosa vuole, ha detto solo cosa non vuole. E questo è il grillismo reale. Cosa succederebbe se nel nuovo consiglio regionale della Valle, i consiglieri di maggioranza si opponessero a qualsiasi proposta diversa da quella bocciata nel referendum e non più praticabile dal legislatore? A chi gioverebbe quest’ulteriore involuzione del doppio circuito, che aprirebbe la crisi finale del sistema? Non sono cavoli che riguardano il comico genovese, ma (a non dir altro) i cittadini che ci tengono al regime delle autonomie speciali potrebbero perderlo. Anche perché da tempo è additato come la punta del bubbone regionalista.

 

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