Il referendum oscurato

L’attuale consiglio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) farà rimpiangere quello precedente, per lo meno più dialettico al suo interno e maggiormente attento ai temi radiotelevisivi? Fa osservare la par condicio? Oltre ai casi legati alle ultime campagne elettorali, spicca la questione giustamente posta dai radicali, che hanno sottolineato quanto sia assente l’informazione sul tema delle carceri e, ora, quella sui referendum recentemente lanciati da Marco Pannella - cui va espressa la massima solidarietà per lo sciopero della fame e della sete - insieme al partito.
E’ una spiacevole, annosa vicenda: l’istituto referendario, che pure è tutelato dalla Costituzione, non è considerato al rango delle notizie importanti. E’ così già ampiamente accaduto in precedenti consultazioni referendarie e sta succedendo con i quesiti appena lanciati a Napoli, tra i quali spiccano quelli sulle carceri. In verità, già nel 2011 l’Agcom era intervenuta dando un indirizzo ai broadcaster al riguardo (l’allora presidente Calabrò era intervenuto al un rilevante convegno tenutosi al Senato, con un forte messaggio di Giorgio Napolitano). Se ne tenne in minimo conto. Il Tar ha dato recentemente ragione al ricorso da ultimo depositato dai radicali e vedremo che accadrà (n. 4539 Tar del Lazio, 2 maggio 2013).
I referendum, pensiamo anche alla storia di quelli sull’acqua pubblica, non godono di grande accoglienza da un’agenda mediatica centrata sulle manovre -persino minuti - del sistema politico. Non solo. Mentre si registra una certa latitanza dell’Autorità sui contenuti del sistema - che pure è uno dei punti chiave delle attribuzioni date all’Autorità dalla legge istitutiva dell’organismo, la 1.249 del 1997- si osserva una strana «militante» attività in un territorio delicatissimo come il diritto d’autore.
L’Agcom intende emanare un apposito regolamento, per applicare il copyright alla rete. Errare è umano, perseverare è diabolico, dice l’antico motto. Ma qui si esagera davvero. Il precedente consiglio discusse animatamente attorno all’argomento e al suo interno si profilò una netta contrarietà, espressa innanzitutto dall’allora commissario Nicola D’Angelo, e non solo. Infine, dopo interessanti e articolate audizioni presso le competenti commissioni parlamentari, emerse la necessità di varare prima una legge, e solo successivamente -se mai- atti regolamentari. I nodi sottesi toccano diritti e doveri delle persone. Tutelati dalla Costituzione richiedono una fonte primaria del diritto. Tra l’altro, in tale coro «partiam partiam» il dibattito italiano rimane tragicamente arretrato. Il congresso degli Stati Uniti (e non solo) è assai più avanti.
L’elaborazione sui «creative commons» (vedi Lawrence Lessig) o su altre articolazioni intermedie nell’era digitale, nella transizione dal prodotto analogico finito a modalità creative aperte, costituisce un criterio interpretativo per una discussione tuttora bloccata. Quasi che il tutto si dovesse risolvere nel corpo a corpo tra quello che Stefano Rodotà ha ricordato essere il «terribile» diritto di proprietà e i «pirati». No, tra il cielo e la terra c’è ben altro. Come sottolineano Chiara De Vecchis e Paolo Traniello nel felice volume «La proprietà del pensiero» (2012) , «il mercato delle opere d’ingegno finora è stato caratterizzato dalla separazione tra la sfera dell’autoralità (authorship) che sancisce la titolarità creativa, e quella del possesso (ownership) che determina la titolarità economica...». Insomma, l’Agcom si fermi un attimo su di un tema che merita un vero approfondimento del legislatore. E cerchi di occuparsi di ciò che, invece, sta proprio nelle sue competenze.
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