I referendum del no nel cuore d'Europa

Dalla Rassegna stampa

Prima, Olanda e Francia, poi, Irlanda, ora Svizzera: che cosa hanno in comune i referendum del "no" che si sono susseguiti nell´Europa degli ultimi anni?
La prima risposta è che hanno in comune la chiusura nazionalista e xenofoba. Chiudono la porta di casa che la "sbadata" Unione europea lascerebbe aperta agli stranieri indesiderabili. Chiudono la porta a religioni "politiche" altrui, negatrici di quella libertà religiosa europea che si chiama laicità.
È una risposta che ha in sé una preoccupante verità. Attesta infatti che nello spirito pubblico europeo del nostro tempo vi è una frattura tra dichiarazioni e realtà. Da pochi giorni infatti ha pieno valore giuridico, anche formale, con il Trattato di Lisbona, la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione. Quell´atto costituzionale europeo non si rivolge solo ai cittadini europei. La stragrande maggioranza di quei diritti è intestata ad "ogni persona". Ogni persona che per motivi di viaggio o di lavoro o di precaria immigrazione si trova nel territorio dell´Unione, gode, per ciò stesso, dei diritti di tutti. È la prima applicazione su scala continentale, del costituzionalismo internazionale: dalla sovranità degli Stati alla sovranità della persona.
Ebbene: quei referendum, così diversi tra loro, hanno lo stesso cuore di tenebra. Ed è nel rifiuto di questo uso comune, di questa loro convivialità dei diritti, di questa incondizionalità (al di là della stessa logica di reciprocità che è affare di Stati e non di persone).
E tuttavia, per quanto grave sia questa rottura, rivelata da quei referendum, tra concezione e pratica dei diritti in Europa, essa è infinitamente meno rilevante di un´altra frattura. È quella che rompe la stessa tenuta degli attuali ordinamenti statali democratici. È quella ripetutamente apparsa tra pubblica opinione referendaria, su specifici temi, e i parlamenti.
Questi referendum europei, in altri termini, hanno mostrato una interruzione di comunicazione e dunque un deficit di rappresentanza dei parlamenti, dei partiti, delle fasce sociali tradizionali titolari di potere di orientamento rispetto alla comune opinione. O almeno, una incapacità "pedagogica", di influenza e di persuasione. Come se lo spirito del tempo fosse diventato estraneo a chi, secondo le Costituzioni, dovrebbe rappresentarlo.
Ci porta dunque lontano, la discussione sui "no" anti-parlamentari in Paesi che con le loro straordinarie storie nazionali sono parti inscindibili della identità europea. Reca con sé anche un filo di spiegazioni sulle pulsioni leaderistiche che animano tanta parte degli sviluppi costituzionali europei. Come se si fosse diffusa la convinzione che la capacità di capire dov´è il consenso elettorale si ritrovi più nelle virtù di un "uomo solo al comando" che non nella polifonia di un parlamento o di un partito, prima della decisione.
Il discorso che parte da quei referendum ci conduce anche alle basi del principio di sovranità popolare. Quel principio che la nostra Costituzione, fin dal suo primo articolo, costruisce e, insieme, circoscrive. Lo costruisce con una sua perennità, quando dice che la sovranità "appartiene" al popolo: un concetto di permanenza che nessuna "unzione" elettorale, può trasferire all´eletto. Lo circoscrive però, subito dopo, dicendo che la sovranità può essere esercitata solo nelle forme e nei limiti della stessa Costituzione. E fra questi limiti ci sono anche i diritti e i doveri: del cittadino e degli "altri". Insomma: la scelta tra Gesù e Barabba non può più essere consumata nel pieno arbitrio popolare.
Ma il discorso che inizia da quei referendum europei può essere ancora più lungo. Dopo duecento anni di vita gloriosa, parlamenti e partiti hanno forse esaurito un loro ciclo nella società sempre più "liquida" e nel diritto sempre più "sconfinato". Quelle scuciture inattese e improvvise nel circuito di rappresentanza sono forse i segni che questo stesso circuito è diventato obsoleto. E quindi che c´è la necessità di un grande sforzo culturale (per nuove forme politiche e non per banali riformette) rivolto a ristabilire, su basi diverse, su procedure più coinvolgenti, quelle connessioni che si sono, forse irrimediabilmente, ottuse e deteriorate.
Questi dubbi sono giustificati. Non sono però interrogativi disperati. Vi sono criteri di risposta ad essi. E questi criteri, almeno tra noi, li dobbiamo trovare, nel senso profondo che anima la nostra Costituzione, al di là della stupida disputa tra conservatori ed eversori sul "patto che ci lega" (come, con felice sintesi, dice Giorgio Napolitano).
È il principio di partecipazione popolare pur in una organizzazione istituzionale ben definita (art. 3). È il principio di unità pur nel policentrismo decisionale (art.5). È il principio revisionistico pur nella immutabilità storica della Repubblica (artt. 138 e 139).
Sono tutte cose scritte nella nostra Costituzione e comuni alle tradizioni costituzionali dell´Unione europea. Ma c´è ormai bisogno di un ripensamento radicale: per farle vivere effettivamente. Perché le faglie che si sono aperte nell´ordine democratico europeo sono troppo vistose, per far finta di niente. Troppo profonde per abbandonarle, con un´alzata di spalle, ai demagoghi, assiepati come mosche cocchiere.

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