Articolo di Fulvio Cammarano pubblicato su Il Corriere Adriatico, il 30/11/09
Troppo razzismo ovunque in Italia e soprattutto troppa assuefazione all’idea che il razzismo sia una prospettiva politica e culturale come tante altre. Mancano insomma gli antidoti a questa malattia se è vero che neppure la capillare presenza della Chiesa cattolica può nulla nell’impedire la diffusione di tale aberrazione. Dai cori contro Balotelli, non come giocatore avversario ma in quanto nero, alle richieste (poi ritirate, ma comunque entrate nel dibattito pubblico) di dimezzare la cassa integrazione dei lavoratori extra-comunitari in regola.
Ogni giorno ce n’è una e un po’ alla volta tutto ciò finisce per apparire normale. L’enorme ondata di volgarità che sta travolgendoci non si infrange più nella barriera antica di una cultura popolare solidale in quanto testimone di una storia di sofferenza, emigrazione e sacrifici. Nulla oggi sembra far barriera contro il razzismo più o meno palese, per il semplice motivo che il clima di incertezza e paura che domina la nostra epoca di crisi trova fertile terreno nel disfacimento dei saperi e della cultura. Se qualcuno voleva la prova di cosa significa nel lungo periodo denigrare la scuola, santificare i reality e tutto ciò che ha a che fare con l’apparenza, adesso è servito. Più cresce la frustrazione e il disorientamento e più si scivola verso la dimensione dell’ebetudine di chi si aggrappa ai fantasmi della razza, dell’etnia e via discorrendo con i molteplici, fantasiosi circoli del noi. I bianchi, i padani, quelli del nord, quelli del mio paese, quelli della mia confessione, della mia scuola: una girandola di identità giocate sempre per dividere, per spaventare e spaventarsi.
E’ necessario, anzi urgente, spostare l’attenzione verso una nuova narrazione, scientifica e positiva, che esalti il ruolo della ragione e della responsabilità individuale contro tutti i tipi di semplificazione ‘superstiziose’ e credulona. Chi conserva un minimo di raziocinio pensa che, a pari doveri, debbano corrispondere pari diritti, che il colore della pelle influenza il merito e le capacità come il colore dell’auto influisce sul suo funzionamento. Chi non ha portato il cervello all’ammasso, ritiene che debba pagare chi ha sbagliato e non la sua famiglia, quartiere, etnia. Sono concetti difficili? No, è dunque è evidente che se, dopo i genocidi e i pogrom del secolo scorso, tali concetti continuano a non diventare patrimonio comune, è necessario interrogarsi sulle politiche culturali delle classi dirigenti nazionali, sui loro limiti e sulle loro pigrizie nel disboscare la giungla dei pregiudizi che caratterizza il nostro paese. La vita degli umani, la loro storia sono realtà troppo complesse per cercare di rinchiuderle nelle gabbiette etnico-religiose che pure ci sono, esistono, ma che vanno comprese e rispettate solo in funzione di un loro lento e pacifico superamento.
Fare affidamento unicamente sulla repressione è però ingenuo perché conferma nel loro credo i razzisti, convinti di essere dalla parte della ragione. Il solo antidoto credibile oggi è quello della diffusione dell’ideale europeo e con esso del sentimento di un’appartenenza a valori di civiltà non discriminatori, come quelli di tolleranza e giustizia. Solo l’Europa, come ci ricorda spesso il Presidente della Repubblica, ci permetterà, lentamente, di uscire dallo stordimento provocato dai vapori tossici del razzismo, soprattutto di quello strisciante.
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