Le ragioni del cambio di rotta

Dalla Rassegna stampa

Sentire i segretari dei due maggiori partiti della maggioranza dire che non scommetterebbero un centesimo, o nemmeno un centesimo, sulla possibilità che il governo possa tentare un bis dopo le elezioni, non deve aver fatto molto piacere al professor Monti.

 

Soprattutto se si tratta degli stessi leader che fino al giorno prima litigavano pesantemente sulla data delle elezioni, ma che due settimane fa si erano trovati concordi, ciascuno con le proprie richieste, nel demolire la legge di stabilità, che intanto ha avuto la sua prima approvazione in Parlamento.

 

Alfano e Bersani, dopo essersi scambiati accuse mercoledì, ieri sembravano di nuovo d’amore e d’accordo nel prevedere poche settimane di vita per il governo: giusto il tempo della campagna elettorale, già cominciata prima ancora di sapere esattamente quando si voterà e con quale legge elettorale, e se si andrà alle urne in date diverse per regionali e politiche, oppure in una sola per tutte e due.

 

Tanta fretta di far capire a Monti che non deve farsi illusioni sul futuro non può essere motivata da ambizioni che il Professore, per parte sua, non ha mai manifestato apertamente. A tutti quelli che gliel’hanno domandato in questi mesi, ragionando sul fatto che la crisi economica potrebbe richiedere un prolungamento della politica di rigore inaugurata un anno fa, e dell’azione diplomatica condotta incessantemente dal premier in Europa, Monti ha sempre risposto che considera la scadenza elettorale della prossima primavera come il termine naturale del suo impegno. Solo talvolta, quando gli interrogativi si sono fatti più insistenti, s’è spinto a dire che se gli sarà chiesto di restare, non si tirerà indietro. Ma solo, appunto, se e quando glielo chiederanno.

 

Perché allora Alfano e Bersani hanno colto al volo l’occasione di un dibattito pubblico, in cui sedevano uno di fronte all’altro, per preannunciare al presidente del Consiglio lo sfratto da Palazzo Chigi? Probabilmente hanno sentito anche loro quel che da giorni si va dicendo nei corridoi della politica (e che la Stampa ha riferito ieri) sull’eventualità che Monti, pressato dalla nuova formazione centrista che si sta organizzando attorno a Casini, Montezemolo e ad altri gruppi moderati, potrebbe cedere all’invito di consentire che la lista che ne verrà fuori possa essere fatta in suo nome. La «lista Monti», autorizzata - o non ostacolata pubblicamente - dall’interessato, avrebbe l’effetto di cambiare la geografia politica preelettorale, introducendo un’opzione che adesso è soltanto a livello di desiderio o di obiettivo da raggiungere, ma con il nome di Monti acquisterebbe concretezza e crescerebbe di peso.

 

L’avvertimento simultaneo dei due leader del Pd e del Pdl è venuto di qui. Con la loro scommessa, o mancata scommessa, di un centesimo, sul Monti-bis, hanno voluto chiarire che il sostegno fornito fin qui al governo dei tecnici verrebbe meno immediatamente nel caso in cui il presidente del Consiglio decidesse a qualsiasi titolo di entrare in campo, o di concedere che il suo nome fosse usato in campo per fini di parte in campagna elettorale.

Per quanto connesso a esigenze politiche (Alfano e Bersani, nelle prossime elezioni politiche, e nei rispettivi campi, si giocano tutto), il messaggio, soprattutto nei toni, è stato fin troppo duro. Nessuno dei due, va sottolineato, ha preso impegno contemporaneamente a proseguire nell’azione di risanamento promossa da Monti, pur sapendo che sarà necessario. Così, quel che è stato detto non gioverà di certo alla vita del governo, sia che duri soltanto poche settimane, sia che si trovi nella necessità di continuare, per le incognite adesso non del tutto prevedibili di una crisi ben lontana dall’essere risolta.

 

Fino a qualche tempo fa, si diceva che in politica le parole sono pietre, e per questo occorre usarle con riguardo. Questi lanciati da Alfano e Bersani all’indirizzo di Monti erano indubbiamente due sassi pesanti.

 

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