La ragion di Stato prevale sull'ira

Berlusconi cede alla «ragion di Stato». Mette da parte la reazione interiore, la «voglia di spaccare tutto» che lo porterebbe a urlare la sua verità, a pretendere per vendetta nuove elezioni subito. Annuncia in pubblico: «Si va avanti». Agli amici confida di sentirsi dentro un tantino «ipocrita», perché ai sentimenti non si comanda, quel discorso pronunciato in Parlamento così formale e inappuntabile non rispecchia il suo vero animo, «l'ho dovuto fare perché voglio bene a questo Paese».
E poi perché la pressione intorno a lui è fortissima, la morsa si stringe, non c'è ministro o consigliere che si esima dal caldeggiare una tregua con Fini sfoderando argomenti tipo: «Due mesi fa il rospo da ingoiare era piccolo, adesso è cresciuto, se aspetti ancora un po' caro Silvio diventerà enorme... Ora o mai più». Fonti autorevoli di Palazzo garantiscono che, per la prima volta da luglio, si intravvede la trama di un possibile accordo tra i due nemici. Il «tessitore», manco a dirlo, è Gianni Letta. Pare abbia delineato un percorso, degno del più grande avvocato matrimonialista, per sciogliere questo legame politico infelice e rilanciare in vece sua l'alleanza, il governo. A Fini farebbe comodo un anno di tempo, magari un anno e mezzo per consentire al suo partito di crescere; dunque pare ci stia.
Il rebus è Silvio. Combattuto dentro. La mente gli dice «arrenditi all'evidenza», e la conferenza stampa di ieri non fa una grinza sul piano del realismo. Però il cuore del Cavaliere ribolle. Lo attanaglia il dubbio che fare patti con il rivale sia peggio di una sconfitta: l'inizio della sua fine. Così, nelle stesse ore in cui promette di voltare pagina, di concentrarsi sull'attuazione del programma perché la gente non ne può più di questo spettacolo, Berlusconi regala ai molti avventori di Palazzo Grazioli sfoghi appassionati che partono invariabilmente dalla «figuraccia mondiale»: i leader stranieri preoccupati, «già pensano che a Roma ci sia la crisi, che l'Italia sia tornata nell'instabilità». Nel migliore dei casi «prenderanno le decisioni senza di noi». Un cumulo di macerie fumanti, «un danno incalcolabile». E pensare, è il rimpianto del premier, «a tutta la fatica che avevo fatto per ricostruire la nostra immagine internazionale...». Di qui a lamentarsi dei media («figurarsi come mi avrebbero trattato se a vendere la casa di Montecarlo fossi stato io»), il passo è breve.
Due pesi e due misure. Per esempio non viene segnalato abbastanza, nell'ottica del premier, lo scandalo del «doppio ruolo» di Fini, presidente della Camera e leader di un partito antagonista. Già gli sembra grave che Bocchino sventoli la bandiera della riforma elettorale («Sanno che siamo contrari, insistere equivale a due dita negli occhi»). Del tutto inaudito risulta al premier che Fini scriva lettere, faccia pressioni sulla Commissione Affari costituzionali per cancellare il «Porcellum», insomma pieghi l'agenda parlamentare alle convenienze della sua parte politica. Anche qui, il Cavaliere è scisso, la razionalità lo spinge a fingere di non aver visto né udito, a frenare i pretoriani con l'ordine di «stare buoni e tranquilli», a lasciar fare Letta, capofila di un fronte che ormai va da Tremonti a Gasparri passando per Fitto, la Brambilla, Cicchitto e Frattini, Quagliariello e Matteoli... Praticamente tutti.
Ma il timore di apparire sconfitto determina nel premier resistenze per ora insuperabili. Non fa che ripetere: «Con Fini presidente della Camera è difficile andare avanti», «sarebbe più facile se fosse solo leader del suo partito», dunque «farebbe bene a dimettersi». E questo è l'empasse cui siamo arrivati. La trattativa sottobanco va avanti, Berlusconi un po' la asseconda, un po' la ostacola elevando il passo indietro di Fini a «conditio sine qua non». E se alla fine il Cavaliere si rassegnasse a lasciar Fini con i piedi in due scarpe? Qualche ottimista dell'entourage azzarda un lieto fine: nuovo patto tra i due e nascita di un Berlusconi bis (che poi sarebbe il quinto presieduto dal Cavaliere) quale pegno della ritrovata alleanza. Ma siamo alla fantapolitica.
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