Quirico liberato dall'inferno. Il supplizio di due finte esecuzioni

Torna finalmente a casa Domenico Quirico, inviato della Stampa in Siria. Segnato nel corpo dalla fame e dai patimenti della prigionia. L’anima appesantita dalle torture fisiche e psichiche inflitte a lui e al compagno di travagli, il professore belga Pierre Piccinin, da banditi violenti e spietati. Hanno subito pestaggi, minacce, e Quirico persino due finte esecuzioni. In 152 giorni di sequestro hanno scoperto l’altra faccia di una rivoluzione che avevano visto nascere vibrante di impulsi libertari. Fra il 6 aprile in cui vennero rapiti e l’8 settembre in cui sono stati rilasciati, di quel movimento popolare hanno drammaticamente sperimentato la degenerazione criminale, almeno nei luoghi del loro travaglio e fra i gruppi di cui sono stati ostaggio. Solo in serata Quirico, 61 anni, una vita professionale spesa nei teatri di guerra e di crisi per raccontare in presa diretta speranze, delusioni e purtroppo anche orrori dei grandi sommovimenti politici e sociali dei nostri tempi, ha potuto riabbracciare a Govone, in Piemonte, le figlie Eleonora e Metella. La moglie Giulietta era assieme a lui sin da domenica sera quando il giornalista è atterrato all’aeroporto militare di Ciampino a bordo di un Falcon 900 dei servizi di sicurezza, decollato da uno «scalo del Medio Oriente». Assieme alla ministra degli Esteri, Emma Bonino e al direttore della Stampa Mario Calabresi, Quirico è stato ricevuto ieri mattina dal premier Enrico Letta e dal presidente Giorgio Napolitano. Tagliato fuori per cinque mesi da ogni contatto con il mondo esterno, non sapeva nemmeno che l’uno fosse approdato a Palazzo Chigi e l’altro non avesse lasciato il Quirinale. Poi prima di salire sull’aereo per Torino, tre ore di colloquio con i magistrati della Procura che hanno aperto un’inchiesta per sequestro di persona con finalità terroristica. Il racconto agli inquirenti inizia dal giorno in cui lui e Piccinin varcano il confine fra Libano e Siria. «Eravamo a bordo di due pick-up con due persone al seguito. All’improvviso siamo stati fermati da un gruppo di miliziani armati, che ci hanno prelevati. Non so dire se siamo stati venduti da quelli che ci accompagnavano».
Da quel momento in avanti la vicenda diventa per la coppia particolarmente oscura. I carcerieri hanno cura di non mostrarsi in volto e sono avari di parole, se non quando sentono il bisogno di mettere paura. «A un certo punto abbiamo pensato che ci avrebbero ucciso, perché dicevano che eravamo diventati un problema e dovevano liberarsi di noi», racconta Piccinin. Ma i momenti più terribili sono quelli passati da Quirico, quando, per ben due volte, gli aguzzini lo sottopongono al feroce rituale di una esecuzione simulata con la pistola puntata alla tempia. I prigionieri si sostengono a vicenda. Quando uno si lascia sopraffare dallo scoraggiamento, l’altro esorta a tenere duro Per tornare a tutte le cose belle lasciate indietro, rivedere le persone care. Una sola volta Quirico riesce brevemente a contattare telefonicamente la moglie: «Sto bene, mi hanno rapito». La comunicazione si interrompe subito. È il mese di giugno. Sono già passati due mesi dalla scomparsa. Entrando in Siria, l’inviato della Stampa aveva detto a colleghi e familiari: «Non mi sentirete per una settimana...». Il rapimento avviene a Qusayr, località conquistata dai ribelli e assediata dai governativi. I ribelli tentano una sortita e si portano dietro gli ostaggi. Quirico e Piccinin vengono trascinati in giro per la Siria. A nord di Damasco. Poi verso la frontiera turca in una località chiamata Bal al-Awa, infine nuovamente verso est. Sono almeno tre le bande da cui, in fasi successive, vengono tenuti prigionieri. Due volte tentano la fuga. In un caso a profittano dell’allentamento della vigilanza durante la preghiera. Si impossessano di due kalashnikov e scappano. Li riprendono dopo due giorni di vagabondaggio senza meta per i campi. E vengono severamente puniti. Pestaggi, umiliazioni, vessazioni di ogni tipo. Ma intanto la silenziosa macchina di soccorso messa in moto dalla Farnesina è in azione. Non si sa e forse mai si saprà se sia stato pagato un riscatto. Ma certamente i servizi segreti contattano ambienti vicini ai rapitori. Piccinin racconta come «a poco a poco» lui e il suo compagno si rendano conto «che c’erano trattative dietro le quinte, in cui erano implicati gli italiani». «L’Italia -aggiunge il professore belga- ha buona esperienza di queste situazioni». È l’inizio di agosto e i sequestratori girano un video per dimostrare che sono ancora in vita. «Poi il giorno 23 ci hanno posto domande personali, come il nome del mio gatto, in modo che i sequestratori potessero convincere la controparte in Europa che le persone da loro trattenute eravamo proprio noi ed eravamo vivi». Un giorno ai due, attraverso una porta socchiusa, capita di ascoltare una conversazione telefonica in cui si parla di un attacco con armi chimiche. A posteriori Piccinin dice che alcuni capi della resistenza sostenevano che a usarle erano stati i ribelli per screditare il governo. Ma Quirico precisa: «Eravamo all’oscuro di tutto quello che stava accadendo. È folle dire che io sappia che non è stato Assad a usare i gas».
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