Quella strana area di bonifica

La storia di Ferrandina potrebbe essere il riassunto di mezzo secolo di industrializzazione forzata di un Paese fortemente agricolo, l`Italia, che per decenni ha rincorso progresso e occupazione senza pensare molto alle pesanti eredità che un processo di questo tipo avrebbe lasciato alle generazioni future. Siamo in Lucania, nella provincia di Matera. È da qui che si alza l`ultimo grido di dolore di una regione martoriata dai veleni lasciati in dono dall`industria chimica. Si tratta del secondo sito di "bonifica di interesse nazionale" della Basilicata, quello della Val Basento, offeso e desertificato da anni di scarichi tossici. Un territorio recintato al cui interno si possono trovare interrati rifiuti di ogni tipo. I più pericolosi, di certo, sono nella vasca dei fosfogessi, residui fortemente radioattivi figli del-le attività di produzione di fertilizzanti e detergenti. E dopo una prima fase di perimetrazione dell`area, propedeutica a un lavoro di bonifica predisposto nel 2002 e mai avvenuto, la successiva parziale caratterizzazione dell`area ha fatto emergere la presenza di mercurio nella falda acquifera con percentuali 140 volte superiori ai limiti di legge. Ma tutto ciò non basta. Nel 2003, infatti, si assiste alla beffa: su quel terreno compromesso, pieno di sostanze tossiche pericolose, nasce un nuovo stabilimento industriale, quello della Mythen spa, finanziato con 45 miliardi di vecchie lire, grazie alla legge 488/92, che prevede «agevolazioni alle attività produttive nelle aree depresse».E l`attività produttiva dell`azienda è volta al recupero di oli esausti e di prodotti chimici per la produzione di biocarburanti. Un`industria ecologica, sembrerebbe. Peccato, però che il ministero dell`Ambiente abbia inserito lo stabilimento della Mythen all`interno "dell`Inventario nazionale degli stabilimenti suscettibili di causare incidenti rilevanti". Come sia possibile consentire la creazione di un nuovo impianto pericoloso all`interno di un`area da bonificare resta un mistero. «La Mythen - afferma Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, tra i primi a denunciare la grave situazione di Ferrandina e autore di una video inchiesta (visibile all`indirizzo www.radioradicale.it) - si spaccia come azienda ambientalista produttrice di chimica verde, ma l`elenco delle sostanze trattate non mi sembra così ecologico. Se, ad esempio, leggo che il keroflux, utilizzato dalla Mythen, provoca gravissimi danni all`ambiente acquatico, non mi sento affatto tranquillo». E le preoccupazioni di Bolognetti non sembrano essere fuori luogo, visto che dallo stabilimento parte un tubo, come si può vedere nel video girato, che arriva direttamente a sversare del liquido, non meglio precisato, direttamente nel fiume Basento. In più, come se non bastasse, l`impianto in questione sarebbe sprovvisto persino di rete fognaria, così come denunciato dall`assessore all`Ambiente della Regione Basilicata, Vincenzo Santochirico, che nel 2008 parlò di «criticità che non agevolano la produzione, come ad esempio la mancanza della rete fognante». Da parte sua, l`azienda ha voluto chiarire la propria posizione in merito, affermando con un comunicato stampa il 30 ottobre che le «materie prime dell`azienda non sono i rifiuti pericolosi, ma glicerina pura, olio di soia epossidato e altre sostanze vegetali oleoginose. Unico prodotto sintetico impiegato: il metanolo». Resta però da capire cosa va davvero a finire nel fiume Basento. E una risposta la fornisce qualche giorno dopo, il 19 novembre, il Corpo forestale dello Stato di Salandra, che accerta l`effettiva presenza di componenti organici inquinanti nel fiume. Capita poi che chi dovrebbe fare i controlli coincida col controllato. «Se la Metapontum Agrobios - afferma ancora il segretario radicale - società partecipata dalla Regione destinata al controllo del territorio, fa la caratterizzazione geochimica del sito di interesse nazionale di bonifica della Val Basento, e contemporaneamente stipula un contratto di collaborazione e consulenza con la Mythen, secondo me c`è qualcosa che non va. Qui c`è un intreccio perverso di interessi che ruota attorno alla gestione legale e illegale dei rifiuti». Ma indagare sui rifiuti tossici in Basilicata è molto complicato. Lo sa bene il tenente di polizia provinciale, Giuseppe Di Bello. Fedele servitore dello Stato, da anni si occupa di reati ambientali. È stato lui a sequestrare, nel 2001, i siti altamente tossici di Tito Scalo, in provincia di Potenza, ed è sempre lui che indaga, con mezzi molto limitati, su ciò che accade anche nella zona di Ferrandina. E a qualcuno il suo lavoro non piace. «Hanno provato a impedire le mie indagini - spiega il tenente - creando un referente unico per la Procura di Potenza da cui passassero tutte le deleghe che riguardano i rapporti tra la Procura stessa e la polizia provinciale. Però, un ufficiale di polizia giudiziaria non può essere limitato nell`attività d`indagine, almeno per quanto riguarda quelle di iniziativa. Infatti, quasi tutte le indagini da me prodotte sono state di questo tipo, cioè non mi sono state delegate dall`autorità giudiziaria. Alla fine, fortunatamente la facoltà di condurre questo tipo di lavoro non è stata toccata. Però ci hanno provato». Ma come è stato possibile devastare un territorio in maniera impunita? «I soldi delle bonifiche sono stati consumati tra analisi e consulenze. Gli unici interventi reali sono stati fatti per la bonifica dei capannoni industriali fatti di cemento e amianto. Ma i veleni sotterrati sono rimasti là. Sia Tito Scalo che Ferrandina, che ospitavano gli stabilimenti dell`ex Liquichimica, se viste dall`alto sembrano spazi verdi. Questo perché chi ha sotterrato i veleni ha pensato bene di mettere sui rifiuti un piccolo strato di terra vegetale da bosco e ha piantato anche degli alberi. Era questo il mezzo utilizzato per occultare i veleni».Ma, a quanto pare, a devastare la Basilicata non è stata solo la produzione industriale locale. «Alcuni dei fanghi che venivano depositati a Ferrandina e a Tito Scalo non appartenevano solo alla Liquichimica - prosegue Di Bello -. Nelle vasche dei fosfogessi ci sono sostanze tossiche che sono state abbandonate in epoca successiva alla chiusura della Liquichimica e che non corrispondono in alcun modo alle sostanze della produzione industriale lucana, sono veleni che provengonoda fuori». Secondo quanto afferma il tenente di polizia provinciale, dunque, la Lucania è una vera e propria discarica al centro di traffico di rifiuti che scavalca i confini regionali. Un business consumato sulla pelle di cittadini che si ammalano senza sapere bene il perché e che meriterebbero attenzione. «I dati sulle sostanze inquinanti non possono essere tenuti nascosti con la scusa del segreto istruttorio - conclude Di Bello -. Se c`è pericolo per la salute, la cittadinanza deve essere informata immediatamente. L`articolo 32 della Costituzione dice che la Repubblica italiana tutela la salute delle persone, ed essendo la Costituzione una legge sovraordinata rispetto alle altre, nessuna Arpab, nessuna Regione e nessuna Provincia si può permettere il lusso di tenere chiuse in un cassetto le analisi o di non farle proprio».
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