Quella storia infinita di trattative tra Stato, mafia e terrorismo

Quasi parafrasando un vecchio e molto ambiguo slogan degli anni Settanta— quando qualcuno rivendicava il diritto di non schierarsi «né con lo Stato, né con le Br» — oggi sembra che la parola d’ordine sia diventata «né con la mafia né con le Br», per dire che le istituzioni non ebbero tentennamenti o cedimenti di fronte all’una e all’altra entità criminale. È quel che in sintesi sostiene l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, sollecitato dalle riflessioni su queste colonne di Pierluigi Battista che invece (prendendo spunto dalle dichiarazioni del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso sulla «trattativa» con Cosa Nostra dopo le stragi del ’92) lamentava un diverso atteggiamento tenuto dallo Stato davanti alle pretese mafiose rispetto alla fermezza opposta ai brigatisti che 1978 rapirono e uccisero Aldo Moro. Ma a ben guardare, nella storia d’Italia dell’ultimo trentennio e anche più si ritrovano episodi che richiamano ad abboccamenti e contatti— più o meno mediati— di uomini delle istituzioni tanto con gli «uomini d’onore» quanto con i terroristi. Fino a sfociare in vere e proprie trattative, seppure segrete. Al di là del caso Moro e del presunto papello. Anzi, la vicenda del presidente della Dc rappresenta una vicenda a sé, che potrebbe rappresentare la sintesi di ciò che, sottotraccia, sembra sia sempre avvenuto. Secondo quanto accertato in diverse inchieste giudiziarie, infatti, dopo il rapimento lo Stato tentò un contatto con i brigatisti proprio attraverso la mafia. Ne hanno parlato Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia e altri pentiti di Cosa Nostra, raccontando di agganci (anche non andati in porto, che però confermano la volontà di trattare) avvenuti nelle carceri e fuori. Finché, in un discorso tra capimafia, Pippo Calò disse a Stefano Bontate che era inutile agitarsi tanto, perché la Democrazia cristiana aveva deciso di non voler fare più nulla per salvare il suo leader. Le indagini e i processi sul caso Moro pullulano di tentativi avviati attraverso la camorra, la ’ndrangheta e altre organizzazioni criminali per arrivare alla prigione brigatista o convincere i carcerieri a liberare l’ostaggio, abortiti o abbandonati. Il che porta a concludere che il problema non fu mantenere la «fermezza» ufficialmente proclamata, bensì non esporsi più di tanto per far tornare a casa il sequestrato. Il quale, dalla «prigione del popolo» in cui era rinchiuso, ricordava inutilmente quando pochi anni prima lo Stato italiano aveva scarcerato dei terroristi medio-orientali, con tanto di cauzione pagata e accompagnamento oltrefrontiera, per impedire nuovi attentati; i suoi colleghi di partito e di governo finsero di non capire, ma qualche tempo dopo un giudice istruttore accertò che era tutto vero. Prima e dopo Moro, i sequestrati Mario Sossi (1974) e Ciro Cirillo (1981) furono liberati dalle Brigate rosse perché in un caso lo Stato cedette alle loro richieste e nell’altro fu pagato un riscatto. Per il giudice genovese la Corte d’appello di Genova concesse la libertà provvisoria ai detenuti di cui i brigatisti chiedevano il rilascio, e Sossi poté andare; poi il procuratore Francesco Coco trovò il modo di tenere in carcere i «prigionieri politici», e per questo fu assassinato dalle Br. Nel caso dell’assessore regionale campano sono ormai note le visite in cella al capo della camorra Raffaele Cutolo di agenti segreti e malavitosi a volte perfino latitanti; e nel suo ultimo libro fresco di stampa, Francesco Cossiga candidamente ammette: «La Dc s’è servita della camorra per liberare Cirillo, ma Cirillo non era Moro». Tornando alla mafia, nella sentenza definitiva con cui Giulio Andreotti è stato in parte assolto e in parte prosciolto per prescrizione del reato, si danno per avvenuti almeno due incontri tra l’ex presidente del Consiglio e il capocosca Bontate, tra il 1979 e l’80, a cavallo dell’assassinio del presidente democristiano della Regione Piersanti Mattarella. Andreotti li ha sempre negati, ma nella storia giudiziaria italiana resta scritto con inchiostro ormai indelebile che proprio lui «ha effettivamente coltivato relazioni amichevoli con i vertici della fazione "moderata" di Cosa Nostra». A che scopo, se non di trattare una sorta di quieto vivere in Sicilia e non solo? E la figura del suo «fedelissimo» Salvo Lima, per come è stata tratteggiata prima e dopo l’omicidio di cui fu vittima, non è forse l’emblema di una trattativa permanente fra boss e politica, e quindi fra boss e Stato? Certo, la storia non si scrive con le sentenze e non si fa nei tribunali, ma il lavoro dei magistrati può tornare utile per capire ciò che è accaduto in questo Paese; del resto le parole del procuratore Grasso, da cui il dibattito sulle trattative è scaturito, si fondano proprio su atti giudiziari. Dai quali può trarsi un’ulteriore parafrasi di quel vecchio e ambiguo slogan degli anni Settanta: «Sia con lo mafia che con le Br».
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