Quel varco tra i templi

I leader religiosi mettono piede ormai da tempo nei templi altrui, lo ha fatto lo stesso rabbino capo di Roma Riccardo di Segni visitando la moschea della capitale, lo ha fatto nel 1986 Papa Wojtyla portando in Sinagoga lo storico messaggio di pace ai «fratelli prediletti, i nostri fratelli maggiori». Quel 13 aprile è divenuto una data. Un varco. Che continua a restare aperto, sia pure attraverso prove e malintesi, talora tempestosi, con la visita di Benedetto XVI a quel lembo di territorio in cui nella Roma pre-cristiana ottomila esseri umani avevano tenuto viva la tradizione ebraica per trecento anni, da prima dei Cesari. E dove alcune bolle papali avevano chiuso quella comunità dentro un recinto, proibito il Talmud, ordinato agli ebrei maschi di indossare il cappello giallo e alle donne una sciarpa gialla. Solo da pochi decenni si moltiplicano gli scambi simbolici la cui sola decisione ed esistenza costituiscono un motivo di eccezione al prorompere dei fondamentalismi e al rigurgito della minaccia che va re-installando nel cuore dell´Europa gli stereotipi del rifiuto dell´altro e nuovi razzismi.
Eppure, all´interno dei rispettivi perimetri "religiosi", questi incontri non cessano di suscitare tensioni, riserve, paure identitarie. I passi per la comprensione reciproca non liquidano di colpo sospetti e passati violenti da risarcire. I mondi religiosi, malgrado le apparenze, mantengono una loro complessità. Nella stessa Chiesa cattolica il dialogo segna i rigori dell´inverno (ciò che non esclude il seme vivo sotto la neve). Tuttavia, un papa fermo di convinzioni come Benedetto XVI non ha avuto difficoltà a visitare la moschea di Istanbul e le sinagoghe a Colonia, Washington, Parigi, fornendo personali ragioni alla opzione della Chiesa di procedere sul cammino della riconciliazione inaugurato dal Concilio Vaticano II. Un segno di questa conferma è la decisione, adottata di comune accordo, di riprendere la celebrazione della Giornata di riflessione ebraico-cristiana che si celebra precisamente il 17 gennaio e che era stata sospesa nel 2009.
Ora la decisione di accogliere il Papa in Sinagoga a Roma ha suscitato il dissenso del presidente dell´Assemblea rabbinica italiana, Giuseppe Laras, che ha annunciato la sua assenza dalla cerimonia domenica. In una intervista al settimanale tedesco Juedische Allgemein Laras ha criticato i cedimenti del pontificato ai circoli retrivi della Chiesa cattolica, dal recupero della vecchia preghiera del Venerdi Santo per la conversione degli Ebrei alla riammissione (poi ritirata) del vescovo negazionista lefebvriano Williamson fino al via libera alle virtù "eroiche" di Pio XII in vista della beatificazione. Il disagio prodotto da questa decisione sia in campo ebraico che in quello cattolico ha indotto il Vaticano a dichiarare che l´eventuale responso finale riguarderà unicamente la vita interiore di Pacelli – astrazion fatta dal giudizio sulle sue responsabilità storiche – e che comunque verrà ritardato rispetto alla procedura della beatificazione di Wojtyla, prevista per l´autunno prossimo. Una spiegazione "idealistica" che non è risultata del tutto convincente. «La visita non avrà un effetto positivo sul dialogo ebraico-cristiano» ha riassunto Laras. «Solo la Chiesa ne trarrà vantaggio». Direttamente riguardato, Di Segni si è prudentemente limitato a rimettere il giudizio alla storia: «Sarà il tempo a decidere quale delle opposte visioni abbia avuto ragione».
In realtà gli incidenti di percorso, sull´uno e l´altro fronte, non potrebbero mettere in questione il processo di non-ritorno nelle relazioni ebraico-cristiane, iniziato alla Conferenza di Seelisberg nel 1947 con la alleanza intrapresa nella lotta alla "cultura del disprezzo" e all´antigiudaismo, e rilanciato con la svolta del Vaticano II. Però è fuori dubbio che nuove chiarificazioni si rendono necessarie per avvicinare il sogno di Jacques Maritain secondo il quale «quando la Sinagoga e la Chiesa saranno riconciliate, allora soltanto sarà possibile parlare di guarigione dell´umanità». Il contrasto fra Sinagoga e Chiesa incombe sul cristianesimo fin dai tempi dell´apostolo Paolo. «Il popolo ebreo vivente definisce la sua esistenza in modo indipendente dalla Chiesa e questo costituisce il punto interrogativo permanente sulla Chiesa» notava lo storico Martin Cunz. «Israele continuerà a mettere in crisi la Chiesa fino alla fine dei tempi. Di più, Israele è la crisi della Chiesa».
Uno fra i punti critici è il riconoscimento che l´ebraismo è un problema di casa per la Chiesa. Non si situa ai margini della teologia cristiana ma al suo centro. Esso fa parte della sua stessa vocazione, dello stesso ambito della salvezza. «Finché il giudaismo resterà esteriore alla nostra teologia e alla nostra storia noi saremo in germe degli antisemiti» dice il Cardinale Roger Etchegaray, uno dei pionieri del dialogo ebraico-cristiano. Ma quanto il suo avvertimento viene condiviso?
Il salto di qualità nelle relazioni potè avvenire con Karol Wojtyla non solo con la visita alla Sinagoga o con la sosta penitente al Muro del Pianto ma quando, in un discorso del 1997, rifiutò lo stereotipo della "superiorità" del cristianesimo sull´ebraismo. Fu lui a riconoscere che l´Alleanza promessa da Dio al popolo ebraico restava «unica e irreversibile». Era la premessa per disarmare il proselitismo e qualsiasi teoria della "sostituzione". Eppure la Chiesa nel suo magistero sembra esitare ad assumere tutte le conseguenze della Lettera ai Romani in cui Paolo annuncia che «Dio non ritira il dono che ha fatto e non muta parere verso quelli che ha chiamato». Lo stesso Benedetto XVI non si è allontanato da questa convinzione, se nell´incontro con la comunità ebraica a Parigi ha ribadito che la Chiesa cattolica si sente impegnata a rispettare l´Alleanza conclusa dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe: «la Chiesa pure – aggiunse – si situa nell´Alleanza eterna dell´Onnipotente i cui disegni sono senza pentimento e rispetta i figli della Promessa, i figli dell´Alleanza come suoi amati fratelli nella fede».
Ratzinger è andato oltre. Qui è visibile la ragione teologica che lo porta in Sinagoga, nel tentativo di dare un nuovo soffio al dialogo ebraico-cristiano e, in generale, alla pace fra le religioni. Egli ha analizzato Auschwitz come la «terrificante espressione» di un´ideologia che «non si limitava a volere la distruzione dell´ebraismo, ma che odiava l´eredità ebraica anche nel cristianesimo e cercava di cancellarla». Per questo manifestava il suo sconcerto sulla durata di paradigmi ostili «tra coloro che, invece, avrebbero dovuto riconoscere la propria affinità in forza della fede nell´unico Dio e della professione della sua volontà». In un discorso a Gerusalemme nel 1994 il Cardinale rivalutava l´ebraicità di Gesù, la sua totale appartenenza alla "Legge antica", ma con una radicalità tale da gettare il suo colpo di sonda sulle virtualità nascoste e le esigenze nuove della Torah. E concludeva a favore della tesi di una profonda unità tra l´annuncio di Gesù e l´annuncio del Sinai, piattaforma possibile per affrontare la questione del rapporto tra Israele e Chiesa, della loro alleanza nei compiti necessari della giustizia e della pace nel mondo.
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