Quattro primarie, ma nessuna somiglia all'altra

Dalla Rassegna stampa

I dati non lasciano spazi a dubbi: le primarie sono uno strumento in grado di attivare un'ampia partecipazione. Uno studio Tecné sulle primarie nazionali che si sono svolte tra il 2005 e il 2010 (una di coalizione e due di partito), stimò un tasso di corrispondenza molto elevato (tra il 97% e il 99%) tra gli elettori delle elezioni politiche e quelli delle primarie. Veniva, infatti, confermato il rapporto tra i votanti delle primarie e delle politiche con una percentuale rilevante: tra il 23% e il 29%: circa un elettore su quattro, presumibilmente, partecipa a entrambe le consultazioni con un voto coerente. Anche se si è trattato di primarie molto diverse tra loro in termini di offerta e situazione politica, dal punto di vista della partecipazione il riscontro è andato di là delle attese degli stessi promotori e organizzatori.

Due studiosi di prestigio come Giovanni Sartori e Piero Ignazi nutrono, però, dubbi sull'effettiva utilità delle primarie. Sartori evidenzia il rischio di selezionare candidati perdenti incapaci di attrarre i voti dell'elettorato moderato; le primarie, inoltre, producono un elevato livello di competizione che incrementa la frammentazione interna. Sulla stessa linea anche Piero Ignazi, secondo il quale le primarie contribuiscono a rivitalizzare i partiti, ma il loro utilizzo, in una logica di frontale contrapposizione alle oligarchie partitiche, finisce col comprometterne la funzione coesiva di appartenenza.

I Il rischio di selezionare candidati perdenti è ampiamente sconfessato dai risultati delle elezioni (da Prodi a Pisapia, in primarie nazionali e locali), mentre i rischi di frammentazione vanno ricondotti alle cause che li rendono possibili. Come osserva Arturo Parisi, le primarie non devono essere intese come una competizione in nome e per conto dei partiti, ma come un confronto tra leader che si propongono alla guida di una coalizione e che, a partire dall'ambizione di tale candidatura, sono la proposta politica da offrire ai cittadini. È semmai l'esasperata conflittualità tra partiti sempre più fragili a rendere le primarie un terreno di scontro, esaltando la frammentazione e comprimendo la politica in rigidi equilibri di potere. È questo che ha determinato la caduta del governo Prodi e le conseguenti lacerazioni nel centrosinistra che hanno prodotto effetti negativi duraturi anche nel corpo elettorale.

LO STRUMENTO GIUSTO?
Qual è dunque il punto chiave di riflessione rispetto alle primarie? Occorre chiedersi se sono lo strumento giusto per recuperare quel ruolo di rappresentanza sociale che, negli ultimi anni, i partiti hanno perso. Una crisi che affonda le radici in un sistema sempre più verticistico, elitario ed elettorale. E che, di volta in volta, ha assunto le sembianze di partito personale, di plastica, mediale, liquido e leggero, di partito-azienda.

Al posto della burocrazia politica interna, tipica dei partiti della prima Repubblica, ha preso corpo una crescente professionalizzazione del personale di staff, consulenti e collaboratori nominati discrezionalmente dal leader, che hanno sostituito i vecchi organismi dirigenti. È cresciuta la dipendenza dalle risorse pubbliche, l'esaltazione del ruolo e dell'immagine del leader ha indebolito la rete territoriale, sostituita dall'uso smodato dei media e della comunicazione pubblicitaria. Con l'affermarsi del partito personale e del leader carismatico, la membership ha perso il ruolo cruciale che svolgeva nei tradizionali partiti di massa e alimentava quei processi democratici interni che controbilanciavano la forza della leadership. La democrazia interna, nel partito di Berlusconi, non serviva perché il consenso elettorale doveva nascere dal dare risposte alle domande degli elettori e non a quelle degli iscritti. L'impostazione verticistica ha contagiato, seppur in forme diverse, quasi tutte le forze politiche, che hanno aperto i loro perimetri a idee e rappresentanze sociali molto diverse tra loro, ma unite da un fattore comune che è stato il riconoscimento di una leadership indiscussa (si pensi non solo a Berlusconi ma anche a Bossi, Fini, Di Pietro e, in parte, Vendola e Casini).

IL PARTITO MONOCRATICO
L'Ulivo prima, e il Pd poi, hanno il merito di aver rotto l'impostazione monocratica del sistema e introdotto le primarie nella vita politica italiana come strumento di democrazia interna al partito e tra i partiti. Uno strumento di partecipazione vera e attiva, capace di stimolare un orientamento civico e un apprendimento che, partendo dal «piccolo», tutela la democrazia in «grande».

Le primarie sono una sfida, perché costringono i candidati, e i partiti che li sostengono, a confrontarsi in maniera aperta con un elettorato il cui responso non è per nulla scontato. E tale sfida è particolarmente impegnativa per il Pd che, come sottolinea giustamente Parisi, le primarie può soltanto perderle, dato che al massimo può vedere confermata quella leadership che i rapporti di forza le riconoscono già ai blocchi di partenza.

Ma il successo dipende dal modo con cui si affrontano. Se, da un lato, sono la scommessa su cui si è costruito il Pd, dall'altro rappresentano la sfida di un modello di partito in grado di rinnovare la politica italiana, nella prospettiva di un sistema che riporta nelle mani dei cittadini il potere di scegliere. Un passo necessario, che suggerirebbe la sua adozione da parte di tutte le forze politiche, per dare corpo a una riforma sostanziale del sistema politico italiano. Una guarigione che necessita, però, di un mix di cure, dove le primarie sono solo uno degli elementi necessari. Occorrono anche (e soprattutto) progetti, visioni e pensieri alti che le primarie possono soltanto misurare in termini di appeal dei candidati. Solo così le primarie diventano un percorso di vera aggregazione e non di perimetrazione dell'elettorato dei rispettivi candidati, cosa che, alla lunga, può avere solo ricadute negative sul sistema politico, che si troverebbe una cambiale in mano da non poter riscuotere al momento del voto.

La risposta alla domanda se le primarie sono lo strumento giusto per recuperare quel ruolo di rappresentanza sociale, non può che essere affermativa. Ma sono uno strumento, da sole non bastano. Per evitare che diventino l'appuntamento di legittimità delle leadership è necessario che siano riempite di politica e che la competizione esprima posizioni anche molto diverse ma convergenti in un campo comune.

Il Partito Democratico ha dimostrato di aver intrapreso questa strada, ma il percorso non è ancora terminato e le prossime primarie saranno decisive: in gioco non c'è solo la leadership del centrosinistra ma il ruolo dei partiti dopo la fine della seconda Repubblica. Il Pd è un passo avanti. Adesso spetta agli altri decidere se scendere nel terreno di gioco, restare in tribuna o giocare un'altra partita. Perché è evidente che togliere il nome dal simbolo non basta a porre fine alla stagione dei partiti personali e aprirsi alle domande che la società ha bisogno di esprimere in termini politici.

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