Publio Fiori (ex Dc, poi An) ha nostalgia dei gambizzatori

Dalla Rassegna stampa

Niente di strano se gli ex terroristi, da noi, sono sempre sotto la luce dei riflettori: gli smargiassi, in Italia, hanno sempre avuto buona stampa e sono stati sempre i cocchi della letteratura. Agli ex tagliagole della lotta armata, che ricicciano nei talk show o vengono eletti a cariche istituzionali prestigiose, si fanno ponti d’oro, come se la loro vita, provatamente sprecata, fosse però in qualche modo esemplare. Esattamente come le loro vittime, che non erano persone ma simboli, anche gli ex terroristi non sono persone ma personaggi. Perciò scrivono racconti e «autobiografie». Sono i soli italiani, insieme alle pornodive e ai faccendieri, che abbiano vissuto, non sopra, ma dentro le righe, sprofondati in un mare di cattiva letteratura.
 Gli ex terroristi, che hanno avuto una vita spericolata, e sono cioè «vissuti pericolosamente», piacciono sia ai fan di Vasco Rossi che ai tifosi del Dux, che dell’Italia analfabeta e fracassona dei Tigrotti di Mompracem e del fasullismo dannunziano sono la quintessenza. Agli ex terroristi, che hanno molto peccato e che si sono poi poco redenti, si perdona con facilità qualunque cosa, come all’Innominato di Manzoni, che tuttavia almeno cercava l’anonimato, mentre i suoi emuli della lotta armata, un secolo più tardi, cercano (e trovano) il centro esatto della scena pubblica, dove raccolgono rendite e onori, dall’imperitura fama letteraria al brivido blu dell’auto blu.
 Non è un fenomeno soltanto italiano e neppure soltanto un fenomeno dei giorni nostri. Dagli anarchici regicidi alle SA hitleriane, dagli squadristi a Che Guevara, da Stalin alle Guardie rosse, il XX secolo non ha prodotto che simili mostri. Ma è soprattutto in Italia che il nichilismo è diventato a tutti gli effetti un logo: il Coccodrillo Lacoste delle anime belle. Soltanto da noi un ex terrorista, sia pure tra i fondatori di Nessuno tocchi Caino, può diventare segretario alla presidenza della Camera e sdegnarsi (con l’approvazione di Francesco Cossiga e di altri padri della patria) se qualcuno protesta, come se Caino con i suoi delitti si fosse guadagnato, insieme a un sigaro e all’impunità, anche una sinecura. Soltanto in Italia una vittima delle Brigate rosse (Publio Fiori, che negli anni settanta si beccò una sventagliata di mitra nelle gambe) può seriamente rimpiangere gli immortali «valori» difesi dalla meglio gioventù degli anni settanta. Quella magnifica gioventù, intendiamoci, aveva i suoi difetti, alcuni capitali.
 Di tanto in tanto, per esempio, le capitava di sparare nelle gambe di qualche bersaglio simbolico, oppure di lasciarlo morto sul portone di casa. Ma almeno non era così debosciata, sospira Publio Fiori, come la gioventù del nuovo millennio, che siede nei bar «facendosi le canne» e che non ha, poveretta, altra virtù che questa: non fa male a nessuno. Sandokan e il Corsaro Nero, Don Rodrigo, gli eroi dannunziani e persino il Signor Bonaventura, Gianburrasca, Fortunello e Capitan Cocoricò erano di un’altra stoffa, più nobile e virile.
 Non erano pecore ma leoni. Non è colpa degli ex terroristi, del resto, se l’Italia ufficiale delle segreterie politiche e delle pagine letterarie si ostina a volerli trasformare, con un bacio particolarmente bavoso, da quei rospi che sono in principi che fanno sospirare le fanciulle. È colpa dei nostri baciatori nazionalpopolari e del loro eterno amore per l’orrido. Se Prospero Gallinari si crede bello, se Morucci e Faranda si credono degli scrittori, se costoro si credono dei politici come tutti gli altri, la colpa è delle cattive letture dei loro sponsor, i gambizzati e gli ex presidenti della repubblica, per non parlare dei presidenti del consiglio in carica. Anzi ne portiamo un po’ tutti la colpa. Troppo a lungo abbiamo flirtato con l’idea che la politica sia una passione cieca.

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