I progressisti (ciechi) di fronte alla crisi

Dalla Rassegna stampa

Vive in una sua Neverland, il presidente del consiglio; il protagonista della celebre storia scritta da James M. Barrie «non vuole crescere mai»; si racconta mirabolanti menzogne, finendoci col crederci. E guai se provi a farlo presente: ti danno del comunista, del forcaiolo, del giustizialista. Sui problemi, le lacune, le inefficienze, i guai dei progressisti ieri hanno ragionato Romano Prodi su Messaggero, Mattino, Gazzettino; e Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera. Ragionamenti e riflessioni interessanti. Cominciamo con Prodi.
 
 La confusione, l’obnubilazione in cui si dibatte il mondo progressista non è caratteristica solo italiana, osserva il Professore, ricordando che un vento di destra - e spesso di destra proterva e inquietante - attraversa un po’ tutta l’Europa: «... In questa fase storica l’economia di mercato, escludendo una quantità crescente di cittadini e mostrando difficoltà ad affrontare le nuove sfide come quelle ambientali, avrebbe bisogno di essere corretta da una politica capace di garantire la collettività di fronte alle insicurezze e agli squilibri che essa stessa ha creato. Questa politica di riassicurazione e di riequilibrio non dovrebbe in teoria trovare ostacoli insormontabili, anche perché, a differenza dell’antico socialismo, il moderno riformismo non ripudia i fondamenti del mercato ma vuole semplicemente garantire che il mercato lavori in modo appropriato...». Ma allora come mai, quando si arriva al dunque, l’elettore volta le spalle ai progressisti e premia i conservatori e talvolta i reazionari? «Credo che la prima ragione sia che anche l’elettore che capisce e soffre per le crescenti ingiustizie sia nel contempo preoccupato che la lotta contro di esse sia esercitata dai partiti di centrosinistra per mezzo di strumenti che mettano a rischio le proprie conquiste», risponde Prodi.
 
 Le parole di Prodi hanno il tono e l’accento pacato di chi tiene una lezione in un’aula d’università, ma la sostanza è un atto d’accusa di cui Bersani, e tutto il centro-sinistra, dovrebbero tener conto: l’Italia oggi si trova a dover compiere scelte ed esercizi difficili e costosi, «ma lo stare fermi porta al ripetersi delle sconfitte fino al momento in cui l’inevitabile peggioramento delle condizioni di vita e delle occasioni di lavoro spingerà i giovani alla rivolta, indipendentemente da chi siederà al governo dell’Italia».
 
 Speculare l’intervento di Panebanco sul Corriere della Sera: «... Si tratti di scuola, di rapporti di lavoro, di magistratura, di revisioni costituzionali o quant’altro, non c’è un settore importante della vita associata in cui il conservatorismo della sinistra non si manifesti con forza. Forse ciò aiuta a spiegare una circostanza che sarebbe altrimenti incomprensibile: il fatto che l’opposizione di sinistra non si sia minimamente avvantaggiata in questi anni, stando ai sondaggi, delle gravi difficoltà di un governo che ha dovuto fronteggiare le conseguenze della crisi mondiale e che è stato inoltre investito da scandali e furibonde divisioni a destra...».
 
 Panebianco poi pone la questione che un po’ tutti, da tempo si pongono: perché nemmeno la forte disillusione di tanti italiani nei confronti di Berlusconi, il fatto che ormai più nessuno creda nella «rivoluzione liberale» sempre promessa e mai attuata spostano a sinistra l’asse politico del paese? Può essere che la risposta giusta sia la seguente: dovendo scegliere fra ciò che ritiene un male (Berlusconi) e ciò che ritiene un male ancora maggiore (la sinistra), il grosso degli italiani continua a optare per la minimizzazione del danno, per il male minore.
 
 «Ci sono due modi per fare opposizione a un governo», dice Panebianco. «Il primo consiste nel contrapporre ai progetti governativi di modifica più o meno profonda dell’esistente, proposte diverse, che ovviamente si giudicano migliori, di modifica altrettanto o anche più profonda. Il secondo consiste nel difendere l’esistente. Quest’ultima è stata la scelta della sinistra in quasi tutti i campi di interesse collettivo. Ne è derivata una paurosa mancanza di idee nuove sul che fare».
 
 Da tempo i radicali mettono in guardia, inascoltati, che la crisi ha raggiunto livelli e proporzioni che vanno ben al di là delle pur grandi responsabilità di Berlusconi; e che la fiducia che ha ottenuto, appesa al voto dei Calearo e degli Scilipoti, evidenzia e accentua la fragilità di chi ci sgoverna. Ed è perfettamente comprensibile l’irritazione, il fastidio di tanti di fronte alle denunce radicali sulla degenerazione partitocratica della nostra "democrazia". Sarebbe più utile e produttivo se si accettasse un confronto su questi problemi. È urgente, necessario, chiedersi cosa e come si possa fare per riconquistare condizioni minime di legalità repubblicana, da stato di diritto. E sarebbe anche un modo per corrispondere alle domande e alle questioni poste da Prodi e da Panebianco.

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