Profitto e religione

Dalla Rassegna stampa

Parliamo di "clericalismo" e, come Vauro, iniziamo con un’autoflagellazione. Ce la cerchiamo in un’omelia di padre Giulio Bevilacqua, confessore-direttore spirituale di Paolo VI. Come Newman, il colto sacerdote apparteneva all’Oratorio, seguiva cioè la spiritualità di Filippo Neri. Nato nel 1881, prete dal 1908, vescovo e cardinale per volontà di Papa Montini nel febbraio del 1965, morì nel maggio di quello stesso anno nella sua parrocchia bresciana di Via Chiusure; infatti anche dopo l’elevazione al rango cardinalizio, rimase parroco, primo e unico cardinale-parroco della Chiesa Cattolica. Il 24 maggio del 1964 gli fu chiesta l’omelia per la prima messa di un giovane confratello e in un volume edito dalla Morcelliana nel 1967, la si trova raccolta con altri suoi discorsi. Dunque, quel mattino di maggio, padre Bevilacqua se la prese innanzitutto con «i sacerdoti ... che si sono messi in posizioni necessarie alla vita: insegnanti, critici, giornalisti, amministratori. Si perdono se vogliono essere esclusivamente studiosi, esclusivamente amministratori, esclusivamente giornalisti». Dopo questa (allora e oggi) ascetica sferzata, Padre Bevilacqua pensa a coloro che, entro e fuori la Chiesa, dopo quattro anni, daranno voce e storia al Sessantotto. E rivolgendosi al giovane prete, gli intima: «Ama questa generazione che ti domanda molto! Le generazioni che non domandavano niente al sacerdote hanno fabbricato quell’obbrobrio che si chiama clericalismo, che è tutto fuorché qualche cosa di religioso, perché è il ricatto, è il profitto sulla religione. Benedici questa generazione e spera che diventi sempre più anticlericale. E voglio dire con questa parola che veda in noi, non i dominatori della vita, mai servitori della vita. Che veda le nostre mani vuote pure dal più grande obbrobrio della vita che è il denaro. Questo domandano soprattutto a noi il Concilio e questa generazione. Per cui benedici anche la severità che ha questa generazione verso di noi, perché questa generazione ci dà la possibilità di restare sacerdoti». Chiaramente padre Bevilacqua, aveva vissuto il Concilio così come è ancora nella memoria della Chiesa di Papa Ratzinger: il segno della formazione di una nuova società mondiale, destinata a distinguersi dalla precedente, obbligando il cattolicesimo istituzionale a concentrarsi sui valori più meritevoli di continuare a esistere nella nuova epoca. Il giovane di allora, dopo 47 anni di sacerdozio, non è stato viziato dal clericalismo che il suo confratello stigmatizzava: anche il suo istituto, colpito da mancanza di vocazioni e dall’invecchiamento dei religiosi, ha chiuso molte case ed opere; lo splendore delle grandi liturgie è stato messo in letargo; lo spirito missionario è stato sottoposto ad eutanasia (per molti, e con molta ragione, il 27 ottobre 1986 ad Assisi), i battezzati laici educati dal Concilio (preparati ma sottoutilizzati) sono stati obbligati a rimanere zitti. Forse anche per questo, il clericalismo «obbrobrio, ricatto, profitto» della religione secondo il cardinale Bevilacqua non sembra indebolito nel nostro Paese. A parte le comiche citazioni (in latinorum, per stupire il loggione) dei gesuiti salmanticensi del 1600 da parte di chi va di nuovo ad incipriarsi il viso in televisione in vista del big businnes della canonizzazione di Wojtyla (le citazioni erano ad usum Berlusconis: per questo, il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1997 non serviva per la sporca bisogna), il clericalismo in Italia ha un aspetto molto più preoccupante. Lo ha riassunto il bravo Paolo Rodari su Il Foglio del 28 gennaio scorso: «Comunione e Liberazione è forte a Milano e in tutta la Lombardia. È forte politicamente, ha i suoi uomini nelle istituzioni locali, ma è molto stimata anche nella curia romana. Nata con uno strappo non indolore dalla chiesa-istituzione ambrosiana che pure cercava in tutti i modi di resistere, arrancando, ai venti post conciliari, ha mantenuto per anni il suo forte carattere anticuriale. La curia da una parte, Cl dall’altra». Questa porcheria "ecclesiologica" (si può essere cattolici a prescindere, oppure contro il proprio vescovo?) ha una proiezione inquietante anche per la nostra vita civile, come ha avvertito Marco Pannella non più tardi di ieri. Come può essere tollerata in un momento così delicato per la vita nazionale, la totale disattenzione alle raccomandazioni di Benedetto XVI sull’utilizzo del qualificativo "cattolico", da limitare solo a coloro che a questa parola ricorrono per vivere e testimoniare la propria fede? Senza questo chiarimento, sarà ancora possibile riconoscere chi tra i cattolici è veramente impegnato a contribuire, in senso democratico, legale e solidale, alla costruzione del sistema di valori e di relazioni che dovrebbero aiutare il cuore del nostro Paese a pulsare a vantaggio di tutti?

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