Il professore tra due fuochi

Giorgio Napolitano ce l'ha messa tutta, ma non ce l'ha fatta. Ha impiegato i 150 minuti della sterminata udienza di ieri mattina a Mario Monti nel tentativo di convincere Pierluigi Bersani a inserire qualche nome politico nel nuovo gabinetto (soprattutto quelli di Gianni Letta e di Giuliano Amato), ma ha dovuto cedere. Ed è un peccato perché due nomi di larghissima esperienza avrebbero notevolmente rafforzato un governo fatto soprattutto di professori universitari e manager: persone di altissimo spessore nei loro campi, ma totalmente privi di esperienza politica e di conoscenza della macchina dello Stato. Bersani non se l'è sentita di scoprirsi a sinistra nel nome della 'discontinuità' da un ministero che pure si è dimesso senza aver perso le elezioni e senza nemmeno un voto aperto di sfiducia in Parlamento. Così Napolitano ha dovuto tenersi l'arrabbiatura e Monti ha dovuto far buon viso a cattivo gioco. All'apparenza il segretario del Pd s'è salvato l'anima. Nella sostanza ha fatto un grosso favore a Berlusconi. Se infatti Giuliano Amato è più politico che tecnico, come dimostra la sua storia, Gianni Letta è esattamente il contrario. Il suo senso delle istituzioni va infatti molto al di là di quanto non creda lo stesso Berlusconi. Basti guardare alle nomine che Letta ha patrocinato.
Da Mario Monti a Emma Bonino nella Commissione Europea, a Lorenzo Bini Smaghi alla Banca Centrale Europea, a Corrado Calabrò all'Autorità per le Comunicazioni, a Ignazio Visco alla Banca d'Italia, ai direttori di importanti quotidiani e agenzie di stampa e a tante altre persone mandate in posti chiave pur non votando certo per il centrodestra e che in molti casi non hanno avuto (e continuano a non avere) alcun riguardo per il Cavaliere.
Letta non avrebbe meritato di essere ricambiato in questo modo perché anche nel governo Monti, Letta avrebbe lavorato per il Paese molto più che per l'amico Cavaliere. Il quale oggi non ha alcun vincolo per sostenere il nuovo gabinetto se non il senso di responsabilità per non mandare per aria un governo della cui efficienza l'Italia ha un disperato bisogno. E lo dirà personalmente domani alla Camera motivando il voto di fiducia del suo partito. Altrettanta responsabilità dovrà manifestare il Partito democratico che - occorre riconoscerlo - da elezioni a gennaio sarebbe uscito molto probabilmente vincitore. Ma al timone di un paese distrutto.
Monti ha davanti a sé un compito enorme. Ascolteremo oggi in Senato il suo programma e nel fargli gli auguri più sinceri non lo invidiamo. Conoscendolo da molti anni, sappiamo bene che il nuovo presidente del Consiglio ha le idee chiarissime su quel che occorre fare. Ma egli è l'amministratore delegato di un'azienda i cui azionisti siedono in Parlamento. Dovrà chiedere al Pdl di cedere - se non sulla patrimoniale almeno sul ripristino dell'Ici sulla prima casa, la cui eliminazione fu il simbolo elettorale del 2006 e del 2008. E al Pd di rivedere la propria posizione sulle pensioni di anzianità e sulla legislazione sul lavoro. Entrambi i partiti rischiano, pressati sulla destra dalla Lega rimasta sola all'opposizione e sulla sinistra da un Di Pietro che non ha nessuna intenzione di dissanguarsi. Speriamo che la Grazia scenda su deputati e senatori e che anche i mercati si convincano della bontà del riscatto italiano.
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