Professioni, la strada per tutele e riforma

Dalla Rassegna stampa

Nel 2007 il volume dei redditi da lavoro autonomo dei soli iscritti agli Ordini professionali ammontava a 20 miliardi di euro (sarebbe al sesto posto nella top ten dei grandi gruppi italiani dietro Telecom e davanti a Finmeccanica). Al termine del 2009 quella cifra andrà decurtata almeno del 30%, sapendo che per alcune professioni il giro d’affari è sceso di oltre il 50%. È evidente che con questi numeri tutte le contraddizioni, presenti in un mondo sospeso tra modernizzazione e continuità, sono destinate ad aumentare di intensità. Né la recessione rende più facile sciogliere altre due contraddizioni: il pendolo tra liberalizzazioni e gestione dell’esistente e l’aspro conflitto generazionale che si è aperto negli ultimi anni. Ed è obiettivamente difficile pensare di annullare i ritardi accumulati agendo sulle sole norme di statuto e di disciplina delle singole professioni. La coperta oggi si presenta corta e da questa considerazione bisogna partire per cercare di dare risposte a una vasta platea di avvocati, medici, architetti, ingegneri, commercialisti che— pur con tutte le difficoltà che vivono— restano una risorsa decisiva per il futuro di una società a capitalismo avanzato.

I mestieri possibili del terziario

La priorità, dunque, è pensare a come ispessire il terziario qualificato made in Italy, come creare nuove occasioni di lavoro e di crescita. La proposta avanzata dal professor Gian Paolo Prandstraller sul blog «generazionepropro.corriere.it» è semplice: trasferire ruoli e competenze dalla pubblica amministrazione alle professioni. Un parlamentare del Pd che ha avuto responsabilità nei passati governi di centrosinistra, Nicola Rossi, l’ha giudicata realistica in un intervento pubblicato sullo stesso blog e ha aggiunto che la considera attuabile nell’ambito della legislazione vigente come processo di sussidiarietà orizzontale. Claudio Siciliotti, presidente del consiglio nazionale dei commercialisti, la definisce «una sorta di uovo di Colombo» che può servire a conciliare indipendenza e responsabilizzazione delle professioni, ma anche a colmare il deficit di efficienza della pubblica amministrazione italiana.
La lista delle competenze che possono essere trasferite è ampia. Alcuni esempi li ha fatti lo stesso Prandstraller, altri emergono dalla consultazione degli esperti. Si può pensare, ad esempio, alla certificazione dei crediti fiscali, alla conciliazione civile delle cause pendenti (sono 5 milioni!), all’attestazione di bilanci in ordine per le piccole e medie imprese, alla redazione di business plan necessari per l’ottenimento di finanziamenti pubblici, la custodia di beni sottoposti a sequestro e, certamente non ultimo, alle procedure di accertamento reddituale nelle cause di separazione e divorzio. Si tratta, per carità, solo di alcuni esempi che riguardano prevalentemente la professione di commercialista e se ne possono tranquillamente fare molti altri, articolati per ciascuna filiera di competenze. Un’operazione come questa eviterebbe che gli organismi di rappresentanza dei professionisti si misurassero tra loro solo in una specie di questua di provvidenze una tantum da parte dello Stato. Il trasferimento di competenze resterebbe invece nel tempo e ridarebbe fiato allo sviluppo di un terziario di qualità. Pur tartassato dalla crisi, il mondo delle professioni sta comunque attraversando una fase di grandi cambiamenti e ciò vale non solo per Milano e Roma ma anche per la provincia. Con due direttrici: l’aggregazione e la specializzazione.

Nel Nord Est un punto di riferimento importante è rappresentato dall’esperienza di Adacta, uno studio associato interprofessionale che dialoga efficacemente con il sistema delle imprese. A Bari è stata avviata un’esperienza di «rientro dei cervelli» fornendo occasioni di impiego a giovani che hanno già avuto esperienze nei grandi studi milanesi e che vogliono tornare a impegnarsi sul territorio. Per ciò che riguarda la tendenza a specializzarsi le segnalazioni sono le più varie e decentrate. Ad Andria, uno studio ha scelto come centro della sua attività il contenzioso finanziario legato all’uso di derivati da parte degli enti locali e persino a Ragusa un altro studio si è specializzato nell’immobiliare. Da un processo di sussidiarietà fermenti come questi — e si sono citati i casi meno conosciuti — sarebbero evidentemente incoraggiati e valorizzati.

Impresa o libera professione

Disegnare un terziario più largo non vuol dire però sottovalutare le questioni legate in senso stretto alla riforma delle professioni. Le commissioni parlamentari Giustizia e Attività produttive della Camera dei deputati termineranno entro la fine di questo mese l’indagine conoscitiva e successivamente dovranno elaborare un documento di sintesi. C’è molta attesa e il Cup, l’organismo che rappresenta gli Ordini, chiede una legge snella, fatta di principi generali (deontologia, tariffe, esami, tirocinio, ecc.) che poi venga completata da deleghe necessarie per affrontare le particolarità di ciascuna professione. Uno dei nodi — forse il più importante— che va sciolto è quello che riguarda la natura stessa delle professioni: sono assimilabili a delle imprese oppure no? «Quando c’è da confutare le critiche dell’Antitrust i professionisti italiani non perdono tempo a sottolineare che l’autorità sbaglia a criticarli, poiché gli studi non sono delle impre­se — sostiene Nicola Di Molfetta, direttore dei TopLegal, una rivista che si occupa del mercato legale —. Quando però ci sono in ballo in­centivi e aiuti pubblici i vertici del­le professioni si uniscono in coro per lamentare l’esclusione dal ban­chetto statale». E Tremonti-ter al­largata agli investimenti immate­riali, incentivi alla capitalizzazione, moratoria sui prestiti bancari, equi­parazione dei dipendenti degli stu­di a quelli delle imprese sono alcu­ni dei capitoli che fanno parte del cahier di richieste.

Il nuovo contratto

Ma come si esce dalla contraddi­zione evidenziata da Di Molfetta? Il contratto nazionale di lavoro degli studi professionali ha introdotto delle novità, sia prevedendo misu­re di welfare compensativo sia in­dividuando nuovi profili non più li­mitati alle sole segretarie e che inte­ressano i possessori di lauree trien­nali. Qualche passo in avanti, dun­que, su una logica datorial-impren­ditoriale è stato dunque fatto ma il vero nodo deve essere ancora ta­gliato. È chiaro a tutti che le profes­sioni vendono un prodotto intellet­tuale che non può essere misurato con principi organizzativi tipici del­le imprese fordiste o post-fordiste che siano. Il parere dell’avvocato o del commercialista non è un pro­dotto seriale e ripetibile e un clien­te se sceglie di rivolgersi a un lumi­nare del diritto non si interessa assolutamente dell’organizzazione che gli fa da retroterra. Fa premio la qualità intellettuale e forse l’irri­petibilità del contributo che chie­de. Non si può non tenerne conto. I più attenti conoscitori dei pro­blemi delle professioni sanno però che oggi rifiutare in toto modelli organizzativi tipici dell’impresa, quelli che sono catalogabili come schemi moderni e anglosassoni, al­la lunga produrrà nient’altro che una forma di colonizzazione del no­stro mercato da parte di operatori stranieri. Volenti o nolenti. Se que­ste premesse sono giuste si tratta di lavorare — e qualcuno lo sta fa­cendo — per individuare una terza via con l’adozione di un veicolo ad hoc per i professionisti, una forma societaria che sancisca come il capi­tale nelle professioni sia di tipo in­tellettuale e non finanziario. Un orientamento di questo tipo mitigherebbe anche il conflitto ge­nerazionale che sta prendendo campo nelle professioni. Se il capi­tale è di tipo intellettuale è eviden­te che il talento va premiato per il contributo che dà in termini di fat­turato da subito e non in base a lo­giche che finiscono per premiare esclusivamente l’anzianità. Solo con questo tipo di apertura sarà possibile attrarre talenti dall’estero e scoraggiare chi vorrebbe andar via dal nostro Paese. Come si può facilmente arguire i quesiti che si trova davanti chiunque voglia ri­lanciare le professioni sono ampi ma è forse arrivato il momento di fare tutti un passo in avanti. Con re­sponsabilità ma anche con un pizzi­co di coraggio in più.

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